Ci sono artisti difficili da mettere in discussione senza rischiare di subire critiche, se non improperi, da parte dei fan. Tra questi c’è Sting, ex icona post-punk ai tempi degli esordi con i Police e poi guru del pop una volta intrapresa la carriera solista. Mercoledì scorso il musicista inglese ha aperto il suo tour estivo a Roma, per il festival Luglio Suona Bene, un tour che già dal titolo non lascia spazio a equivoci: Back to Bass Tour, ossia il ritorno allo strumento che, insieme all’inconfondibile timbro vocale, ha creato il mito. Le cronache e le aspettative erano dunque chiare, uno show basato principalmente sui primi anni della sua lunga carriera, sui brani scritti per la band e per i suoi lavori in solitaria.

E in effetti così è stato, e davanti a una platea osannante, alle 21.30 – dopo una breve performance del figlio Joe Sumner (bella voce, molto simile a quella del padre, ma verve compositiva piuttosto latitante) – Sting sale sul palco della Cavea dell’Auditorium intonando uno dei classici dei «tardi» Police, Every Breath You Take. Al suo fianco una band che comprende un mostro sacro del ritmo, Vinnie Colaiuta, un preciso tastierista come David Sancious, un giovane e brillante violinista, Peter Tickell (forse la sorpresa migliore della serata), il percussionista Rhani Krija, la vocalist Jo Lawry e il navigato chitarrista Dominic Miller, che però alla fine risulterà l’anello debole della catena.

Si diceva come mettere in discussione un artista come Sting possa essere un boomerang per chi scrive, ma non si può non notare quanto il tutto, pur quasi perfetto e ineccepibile dal punto di vista tecnico, manchi però di qualche elemento che dovrebbe risultare fondamentale. È innegabile che gli anni passano e che certe urgenze espressive vengano via via scemando, ma il problema, a nostro avviso, resta.

Se sulla scelta artistica di Sting come solista la posizione di chi scrive è stata sempre critica, fatta eccezione per il primo album, The Dream of the Blue Turtles, la speranza si rifletteva su quanti e quali pezzi dei Police avrebbe suonato, e su come sarebbero stati approcciati. Ed è qui che il nostro giudizio punta il dito, perché «edulcorare» brani come So Lonely o Next to You, oppure scegliere cose di certo più «catchy» ma non propriamente dei capolavori come When the World Is Coming Down o Every Little Thing She Does Is Magic ci lascia perplessi e con un po’ di rammarico, appena mitigato da versioni più «fedeli» di Invisible Sun e Wrapped Around Your Finger.

Tra i successi della carriera solista Sting ripropone, con il placet entusiasta del pubblico, Mad About You, Shape of My Heart, Fields of Gold, Englishman in New York e in chiusura di bis Fragile, ma il momento migliore del concerto, l’unico che ci ha fatto sussultare, è stato quando per mitigare la mancanza dell’amico Peter Gabriel, con il quale ha da poco finito una tournée, ha voluto omaggiarlo con una bella versione di Shock the Monkey seguita da Invisible Sun e da un mix poco «ortodosso» tra Dancing with the Moonlit Knight dei Genesis e il classico dei classici Message in a Bottle. Ma non basta per farci cambiare giudizio.