L’ultima estemporanea, improvvisa e improvvida, trovata di Renzi di abolire il canone Rai, rappresenta a meraviglia l’impasse politica e mentale in cui si sono venuti a ficcare il partito democratico e il suo leader dopo la sconfitta del 4 dicembre. Non si mette prima il canone in bolletta per farlo pagare a tutti combattendo così l’evasione (in questo senso ha ragione da vendere Calenda), per poi subito dopo invece chiederne l’abolizione, insieme a quella del tetto pubblicitario per l’azienda pubblica.

Tanto valeva, allora, farlo prima. Una mossa, questa renziana, in purissimo stile berlusconiano, che replica l’abolizione dell’Imu per le classi più abbienti del 2016 (costata alle casse dello stato 4 miliardi di euro). Rispetto alla sfrontatezza demagogica di una scelta come questa si fa fatica perfino a sottolineare che, nel caso ciò accadesse, l’Italia rimarrebbe l’unica democrazia europea con un servizio pubblico senza canone e infarcito di spot e pubblicità. Sinceramente una vera sconcezza, un’operazione di bassa cucina elettorale come finora a sinistra mai si era visto o udito. È la conferma di quanto il leader di Rignano faccia fatica a raccordarsi alla sensibilità culturale del suo stesso partito, per non dire di una sinistra storica pur ondivaga e rinunciataria, ma comunque capace in più di un’occasione di esprimere un’idea di sistema per il riassetto dell’etere e la difesa del servizio pubblico. Saremmo infatti davvero curiosi di sapere cosa pensa di queste indiscrezioni programmatiche l’attuale premier, cui Renzi chiede di metterci la faccia (ma evidentemente non il cervello) per frenare l’emorragia di voti al partito: proprio quel Gentiloni autore da ministro del secondo governo Prodi di un interessante progetto di riordino del sistema (passato alla Camera nel 2007) che, tra l’altro, prevedeva l’invio sul satellite di una rete Mediaset e di una rete Rai (ipotesi coraggiosa prima dell’avvento del digitale), un tetto alla raccolta pubblicitaria per ogni singolo attore del mercato e la messa in sicurezza della Rai con l’istituzione di un Consiglio per le Comunicazioni di 21 membri, nominati da una serie di enti ed istituzioni che ne garantivano una certa autonomia, cui veniva demandato di indicare sia i vertici della Rai che i membri dell’Autorithy. Lo stesso progetto prevedeva per quest’ultima un ruolo di controllo per garantire il rispetto da parte anche della tv privata di quegli indirizzi che il Consiglio superiore decideva di emanare all’intero comparto televisivo nazionale.

Un’altra epoca storica, insomma, come si vede, e un’altra temperie culturale. Quando, avrebbe detto Giorgio Gaber, almeno ( a sinistra) c’era un pensiero. A guidare scelte e comportamenti politici. Al posto dei sondaggi.