Sulle parete del Maxxi scorrono le pagine di un diario della fatica estrema, la registrazione di uno sfinimento fisico che, letteralmente, conduce allo sputare sangue. Nausea, vertigini, intossicazione, svenimento: se non fosse per il suo rifiuto del «metodo», l’artista e regista teatrale belga Jan Fabre potrebbe considerarsi l’unico vero erede di Antonin Artaud, almeno di quel teatro isterico e estatico che rappresenta una esperienza totale per il performer e il pubblico.
Corpo residuale esso stesso, oggetto-soggetto di ogni azione, Fabre mette in scena un’offerta rituale in cui disseziona organiche parti di sé, la sua è una celebrazione cannibalica dell’essere al mondo, dove la sofferenza – anche soltanto quella del guardare o dello stare seduti per tempi dilatati al buio – è la sola pianificazione possibile e l’esplorazione del limite è il rischio da assumersi.

«Mi piace eseguire azioni private davanti a una telecamera. Mi diverte fare le cose più idiote ed estreme al mio corpo. Sono forse un voyeur di me stesso?», scriveva il giovane Jan mentre lasciava gocciolare il sangue sui fogli delle sue pitture. Spesso i primi video, quelli del fiato trattenuto, del fuoco che dà vita a immagini o le prove di soffocamento e rinascita in Bag, prendevano forma nella stanza dei genitori.

Da oggi e fino al 16 febbraio, le visioni dell’artista di Anversa saranno riproposte al Maxxi in un’ampia retrospettiva (la cui apertura accompagna il re-enacting di due spettacoli teatrali per Romaeuropa festival) che dissemina un intero piano del museo con un «magma di rovine», materiali e reperti scampati all’effimero qui ed ora della performance. Su novantadue tavoli trasparenti giacciono i resti, ordinatamente classificati e archiviati in una sorta di tassidermia che attraversa quarant’anni di corporale creatività.

«Un mare di tracce – spiega Germano Celant, curatore della mostra Stigmata – dove il pubblico può nuotare, lavorare con la fantasia e ricostruire le azioni…». Magari rimanendo impigliato in quell’universo ossessivo di rimandi che prende le mosse da un bisnonno entomologo, dall’ansia di controllo su tutto ciò che è ibrido: quella valanga di dati, più che documentare, provoca suggestioni e apre varchi tra ruderi esistenziali. Perché, continua Celant, «Fabre si autoracconta, la sua è una narrazione autobiografica». Fin da quando, agli esordi, mette in scena una identità di violento ragazzo di strada e parla di sé attraverso modificazioni aberranti del suo corpo. La sua è una continua altalena fra principio di energia vitale e cupio dissolvi, quel prorompere della morte connessa necessariamente a ogni metamorfosi.

Mutazioni, dunque. Le farfalle escono dai bozzoli e si posano sul suo volto ma anche sulla giacca «cucita» con la carne cruda, i gusci-corazze degli insetti svuotati, scheletri esterni che sono rovesciamenti dell’umano. E, infine, l’iniziazione verso la bellezza – guerriero si definisce in modo mistico – e lo stupore infantile per la potenza distruttrice e rigeneratrice della natura. Fabre, bambino, andava con il padre a visitare la casa di Rubens e gironzolava per i musei con gli occhi pieni delle deviazioni verso il fantastico dei maestri fiamminghi. Tragico nel senso greco, medievale per quel suo teatro di passione che non vuole separare la razionalità dalla follia e rinascimentale per il suo bestiario antropocentrico, è capace di salti concettuali acrobatici e di rendere omaggio al fratello morto attraverso un prigioniero chiuso ad Alcatraz, «il misuratore di nuvole». Quel compito impossibile, puro anelito alla libertà, nella sua costellazione artistica diventa un omino color oro proteso con un righello verso il cielo.

Poi ci sono le azioni «rivoltanti», quelle che trascinano allo stremo: grattarsi via la pelle fino a sanguinare, rinchiudersi in una gabbia di vetro, mendicare fino a ricevere percosse e sputi, ridurre in cenere i soldi per uno spettacolo, coprire una superficie con la biro per 72 ore consecutive. Anche, respirare la ruggine nascosto dentro una armatura e sentirsi male, avvelenato da un’azione reiterata e protratta nel tempo, mitica fatica di Sisifo.