«L’emergenza è sovrana. La critica è un festino di troll. La crisi è merce d’intrattenimento».
Hito Steyerl (Monaco di Baviera, 1966) è una cineasta, artista visiva, teorica e scrittrice, e si occupa di media, tecnologia e cultura visuale. Il suo lavoro intreccia cinema, video-installazioni e lectures. Tra il 2015 e il 2016 ha tenuto una mostra al Reina Sofía di Madrid, intitolata Duty-Free Art, a cui ha fatto recentemente seguito un libro, Duty Free Art Art in the Age of Planetary Civil War (Verso, Londra, pp. 256, sterline 16,99). Come già nel suo precedente The Wretched of the Screen (Sternberg Press, 2013), il volume è una raccolta di testi, in massima parte apparsi su riviste o cataloghi tra il 2011 e il 2017.
Duty Free Art è un discorso sulla critica condotto con i mezzi dell’arte e un’opera artistica realizzata con i mezzi della critica. Non è puramente una riflessione di estetica, offre frequenti incursioni nel campo dei visual studies e in alcuni momenti ha i tratti dell’inchiesta. Il libro ha una struttura organica seppure non lineare; Steyerl è tagliente e incalzante, procede spesso per associazioni e combina sapientemente codici visivi e testuali. Più temi si incrociano in un montaggio serrato, in cui la prospettiva cambia in maniera repentina; ma in definitiva il motivo dominante è la condizione umana di fronte alla violenza del capitale. L’arte, soprattutto attraverso il medium digitale, è il modo in cui il capitale restituisce una coerenza fittizia e consolatoria a una realtà brutale, discontinua e inquietante. «L’arte contemporanea non è altro che un miscuglio di cose opache, inintelligibili e faziose, di lotta di classe condotta dall’alto e d’ineguaglianza totale. È la punta di un iceberg che serve da ariete».
Come accade ormai con una certa frequenza, almeno dalle rivendicazioni di Arts & Labor e Occupy Museums, nel libro viene messa in questione la pretesa autonomia dello spazio fisico e discorsivo dell’arte. «L’arte contemporanea è resa possibile dal capitale neoliberale sommato a internet, biennali. E alla lista aggiungiamo: guerre asimmetriche – in quanto causa di massicce ridistribuzioni di ricchezza –, speculazione immobiliare, frode fiscale, riciclaggio di denaro e deregulation dei mercati finanziari».
Steyerl osserva come quella che un tempo pareva essere una risposta valida contro la perversione dell’industria culturale, la critica istituzionale, è stata superata e anzi cooptata dalle forze conservatrici. «Al momento, a ricorrere al discorso “anti-elitario” in cultura sono più che altro le élite reazionarie, che riattualizzando stereotipi di “arte degenerata” cercano di sviare l’attenzione dai loro privilegi economici». Il presupposto alla produzione di arte oggi non è più semplicemente la sua funzione discriminatoria, tramite cui marcare simbolicamente l’appartenenza a un gruppo sociale privilegiato. A ben vedere, dietro l’arte ora c’è «l’ente culturale di un tiranno, lo stratagemma per l’evasione fiscale di un oligarca/trafficante di armi, il prestigio di un fondo speculativo, la schiavitù da debito di uno studente d’arte, la divulgazione di documenti riservati, cumuli di spam e il prodotto di enormi quantità di lavoro “volontario” non retribuito».
Tecnologia e Comune di Parigi
A tenere in piedi il sistema, comunque, sono i corpi e i sogni di questa enorme e spesso anonima folla. «Si tende a credere che a sostenere il mondo dell’arte siano lo Stato, le fondazioni, i mecenati e le multinazionali. Ma è piuttosto vero il contrario. Nel corso della storia sono stati gli artisti e i lavoratori dell’arte che più di ogni altro attore sociale hanno sovvenzionato la produzione artistica. In genere ciò avviene escogitando economie ibride in cui, per farla breve, si finanzia la produzione artistica tramite qualche forma di lavoro salariato (o altri tipi di reddito)».
«Diversamente dalla visione modernista, l’autonomia dell’arte non è individuale, dissociata o isolata. Né può emergere da qualche illusione di progresso immanente la tecnologia». Del resto, la tecnologia non è di per sé una via d’uscita: «Internet ha generato Uber e Amazon, non la Comune di Parigi». Anzi, nel profluvio di dati della comunicazione digitale, in cui è complicato identificare e filtrare le informazioni, la tecnologia accentua la scarsità dell’attenzione e della presenza umana. «L’arte è criptaggio in quanto tale, a prescindere dall’esistenza di un messaggio a cui si associano una pletora di chiavi interpretative tra loro contrastanti e sovente inutili».
Certo, l’arte è un riflesso dei suoi tempi. E Steyerl, richiamandosi ad Agamben, usa il concetto di «stasi» per rappresentare questa epoca d’instabilità continua e di conflitto permanente, «un’era in cui tutto va e niente arriva da nessuna parte, un tempo di stagnazione crescente, un vicolo cieco di novità seriali». In questo scenario, l’alternativa alla distruzione o alla gentrificazione dell’arte – che rappresenta un valore, o una «criptovaluta» – è la sua accumulazione in qualche «deposito franco», come quelli progettati da archistar a Ginevra, Singapore o Monaco: un museo offshore, extraterritoriale, uno stato di eccezione. Lo status di duty free è secondo Steyerl la più importante forma artistica attiva. «È il rovescio distopico della biennale in un’era nella quale i sogni progressisti di globalizzazione e cosmopolitismo si sono avverati sotto forma di un caos multipolare popolato da oligarchi, signori della guerra, corporation too big to fail, dittatori e una moltitudine di nuovi individui senza cittadinanza». Eppure l’arte duty free – letteralmente, «senza oneri» – non è necessariamente un male, a patto che sia davvero priva di oneri, che non abbia «nessun obbligo di onorare, rappresentare, insegnare, concretare valore. Un’arte duty free non dovrebbe essere il mezzo per rappresentare una cultura, una nazione, soldi o altro. Perfino un’arte duty free in spazi di deposito franco non è davvero libera da oneri, ma solo esente da tasse; ha comunque l’onere di essere una risorsa».
«ArtReview» e ambiguità
In effetti, l’appunto che si può muovere all’analisi di Steyerl è di non proporre mai soluzioni convincenti per uscire dal loop infernale della stasi, di non andare mai al di là di una suggestiva disamina dei problemi. Non è detto che spetti a lei farlo, ovviamente. Tuttavia, ciò conduce a un altro interessante aspetto del panorama artistico odierno: l’implicazione dell’artista. Nel 2017, «ArtReview» ha dichiarato Steyerl il personaggio più influente di quel mondo fluido e opaco dell’arte contemporanea che lei con tanta intelligenza e stile descrive. Si configura quindi una situazione di profonda ambiguità: la collusione apparentemente inaggirabile tra il sistema e chi lo attacca o lo biasima. Sembra che tutti vogliano andare alla biennale per raccontare con parole, oggetti o azioni quanto è perfida la macchina espositiva della biennale. Non è chiaro come sia possibile smarcarsi da una «economia della presenza» partecipando con solerzia a ogni grande mostra. Ironicamente, il mondo dell’arte gratifica chi riesce a dare un nuovo, malizioso lustro alle sue intrinseche storture. La denuncia si ribalta allora in consenso. In linea con il processo di assorbimento della critica istituzionale nei ranghi delle forze reazionarie, anche protestare in maniera veemente contro i finanziatori più o meno occulti di una grande rassegna internazionale a cui si è aderito può diventare un nuovo modo per accelerare la stasi. Non a caso, l’artworld occasionalmente premia simili iniziative elargendo un bonus di reputazione all’artista.
Se, come avviene da dopo l’avanguardia, l’arte è una perenne interrogazione su se stessa, è chiaro che ogni enunciazione dell’artista rimane ambivalente, perché parte da una posizione di sostanziale seppur polemica intesa. Da qui il sospetto: un elemento che dall’orinatoio di Duchamp in poi accompagna in maniera più o meno eclatante i fatti dell’arte.