Nell’inquadratura del collegamento zoom Steven Soderbergh porta i consueti occhiali a montatura nera, la barba corta, sullo sfondo campeggia il manifesto originale di Repulsion di Polanski. Indossa una maglietta nera con la scritta «Tulipa Palermo» – a chi gli chiede spiega ridendo: «È un riferimento molto oscuro a Deserto Rosso di Antonioni dove in una sequenza è visibile una nave attraccata al molo che si chiama così».

L’indumento è di sua produzione, ne stampa dozzine di modelli reperibili sul suo sito, ognuna con un riferimento arcano che metterebbe alla prova il più enciclopedico degli appassionati.

C’è la maglia «18 U 13» (la targa dell’auto usata per contrabbandare la droga in Braccio violento della legge), quella dedicata alla Pacific Risk Insurance (la società di assicurazioni dove lavorano Fred MacMurray ed Edward G.Robinson in Fiamma del peccato) e quella su cui campeggia «1 Rue Jules Verne» (indirizzo dell’appartamento dove si incontrano Marlon Brando e Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi).

Ordinaria amministrazione per il regista più cinefilo di Hollywood, tuttora operatore e direttore della fotografia di tutti i film che gira, da Sesso bugie e videotape all’ultimo, Let Them All Talk, dell’anno scorso, girato su una nave da crociera in servizio poco prima del lockdown, una disquisizione sull’atto creativo e sull’appropriazione artistica sotto le spoglie di una commedia degli umori, con Meryl Streep, Candice Bergen e Dianne Wiest (oltre al sempre bravo Lucas Haas).

Una parabola artistica fra le più eclettiche di Hollywood che da énfant prodige del cinema indie l’ha portato ad essere fra i registi più rispettati dell’industria – e quello cui l’Academy ha affidato quest’anno la produzione della cerimonia Oscar.

 

Soderbergh sul set di “Contagion”

 

Come ha messo insieme il cast di «Let Them All Talk»?

Abbiamo scritturato Meryl (Streep) per prima, poi si è trattato di trovare due attrici che funzionassero come sue controparti, capaci di esprimere un giusto contrasto con lei. Candice (Bergen) e Dianne (Wiest) sono subito state la mia prima scelta perché entrambe comunicano un’energia molto distinta. Poi Lucas (Haas) che è uno di quegli attori che sto tenendo d’occhio da qualche anno. Appena si è materializzata questa parte sono andato da lui sperando ardentemente che accettasse. Per me si tratta sempre di un processo fluido e organico con l’idea di assemblare un mosaico della giusta complessità.

Quale è l’idea dietro a questo film?

In realtà è un film sulle storie che ci raccontiamo l’un l’altro e sulla differenza fra le storie che raccontiamo agli altri e la verità di chi siamo veramente – cioè le storie che teniamo per noi. In questa trama tutti, con la possibile eccezione del personaggio di Dianne Wiest, vivono una discrepanza profonda fra l’immagine pubblica che presentano e chi sono veramente. È questa l’esplorazione principale del film.

Come sviluppa le dinamiche fra i suoi personaggi ?

Credo che questa sia fra le prime domande da farsi mentre si sta costruendo una storia: cosa vogliono i personaggi? Devono cercare qualcosa per poter muovere la narrazione. E credo che la questione si ponga in ogni scena anche le più intime con due persone in una stanza – anche in quel caso devono comunque volere qualcosa. Penso che ogni interazione abbia in sé una qualche forma di richiesta o di seduzione.

E quale è l’interazione fra autore e pubblico?

Credo fermamente nel potere delle storie. Credo che la narrativa faccia parte del nostro dna e che sia alla base dell’apprendimento e dell’evoluzione, sin dal principio. Appena abbiamo sviluppato la capacità di comunicare abbiamo iniziato a raccontare storie.

Penso sempre alle pitture rupestri nelle caverne in Francia: trovo straordinario ed emozionante come abbiamo cominciato prestissimo a voler rappresentare il mondo in modo simbolico e come ci siamo rivolti a quegli animali, c’è una tale primordialità in quelle immagini! E sono così perfette (ride).

Quando vedi quella parete ti domandi: «ma dov’è la parete di prova?» perché si tratta di un’ iconografia perfettamente sviluppata. Mi sono sempre reputato incredibilmente fortunato di lavorare in un campo che ruota attorno alle storie poiché senza di esse non sopravviveremmo. Il cinema è stata per molto tempo la forma più potente di narrazione. Vedremo se nel ventunesimo secolo emergeranno altre forme espressive in grado di superarlo.

Intanto bisogna vedere se si riesce a riportare il cinema a qualche parvenza di normalità.

È chiaro che ormai disponiamo dei protocolli necessari per tornare a produrre in sicurezza, e credo che siano esportabili ad ogni filiera in cui sia necessaria la prossimità fisica. I tassi di positività sui set sono al di sotto dell’1% e quindi mi sembra che le basi per lavorare ci siano. Ora ciò che avverrà nei prossimi sei-nove mesi con la diffusione dei vaccini sarà molto interessante.

Ad esempio penso che la nostra industria farebbe bene ad indirizzare un po’ delle energie spese a rammaricarsi sui modelli di distribuzione verso campagne per indurre la gente a vaccinarsi, perché in caso contrario sarà difficile tornare alla normalità. Se una considerevole parte della popolazione continuerà rifiutare i vaccini potrebbe essere un grande problema. Magari potremmo dare un contributo in questo senso.

Come regista di «Contagion», lei queste problematiche le aveva già esaminate dieci anni fa?

Tutti i consulenti con cui abbiamo lavorato all’epoca ci avevano assicurato che non era una questione di «se» ma di «quando», una pandemia come questa si sarebbe diffusa prima o poi. Ognuno la considerava inevitabile già allora. E gli esperti del Cdc (Center for Disease Control, ndr) erano d’accordo. Quindi lavoravamo su qualcosa di ampiamente previsto.

Però lo sceneggiatore, Scott Burns, ed io non avremmo mai immaginato la portata polemica e lo scontro politico sviluppati attorno a questo evento di salute pubblica. Il personaggio di Jude Law in quel film (un blogger complottista, ndr) doveva essere la singola nota della melodia. Io e Scott non pensavamo che sarebbe diventato l’accordo principale. È stato un fallimento della nostra immaginazione.

Con la cerimonia degli Oscar che lei produrrà, si sta per chiudere l’anno pandemico di Hollywood e del cinema orfano delle sale. Come vede l’uscita da questo momento difficile?

Non esiste studio hollywoodiano il cui piano quinquennale non preveda la distribuzione nelle sale come priorità. Nel 2019 quel modello ha rappresentato un giro di affari di 11 miliardi e mezzo di dollari – 40 in tutto il mondo.

L’idea che gli studios intendano in qualche modo abbandonare le sale è ridicola. Ciò che hanno fatto in quest’ultimo anno sono state scelte dettate dalle circostanze in risposta a realtà economiche che potrebbero perdurare ancora dei mesi.

Preferirei che tutti mettessimo più energia per ottenere quel pacchetto di sovvenzioni statali che permetterebbero agli esercenti di tenere duro nei prossimi dodici mesi. Questa dovrebbe essere la nostra attuale priorità: assicurarci che quando tutto sarà finito esistano ancora delle sale cinematografiche da poter riempire.

(Successivamente a questa intervista il governo americano ha approvato un decreto salva cinema del valore di 15 miliardi di dollari. Nella maggior parte degli stati americani le sale sono aperte con norme di distanziamento e limiti sulla capienza, nda)