All’entrata in mostra l’artista sembra non accorgersi del nostro sguardo. Sopracciglia sottili, capelli fulvi tagliati a caschetto, bocca carminio (come le le immancabili décolleté, parte integrante della sua tenuta da pittura insieme alla tavolozza poggiata in grembo), Florine Stettheimer (1871-1944) è intenta a osservare qualcosa che oltrepassa i confini della tela che la ritrae: non si avvede di noi, e nemmeno del fauno che a occhi chiusi, appoggiato al tronco-meridiana che scandisce la metà del dipinto, sta godendo degli ultimi caldi autunnali. Si tratta di un doppio, dell’oggetto del quadro cui la pittrice sta lavorando, o il correlativo oggettivo del piacere provato dipingendo?
Disorientati da tanta intelligenza compositiva e levità, volgiamo l’attenzione alla parete opposta: alla contemplazione quasi estatica di Self-portrait with Palette (Painter and Faun) si sostituisce un altro sguardo distolto, ancor più sorprendente del primo. Dipinto a quarantaquattro anni, nel 1915, A model è il primo autoritratto femminile che rappresenta un nudo integrale, dato inimmaginabile e scandaloso per l’America dell’epoca, a maggior ragione pensando che l’autrice era ebrea, indipendente, e non proprio nel fiore degli anni («They like a woman to have a mind/ they are of greater interest they find/ they are not very young women of that kind», avrebbe ironizzato Florine in una delle poesie raccolte postume nel volume Christal Flowers). Qui il gioco si fa ancora più sofisticato, perché attraverso questo dipinto Stettheimer sfidò a viso aperto non solo i pregiudizi dei suoi contemporanei, ma anche i capisaldi del genere, rovesciandone in modo geniale i presupposti. All’invito al voyeurismo maschile della Maya e allo sguardo di sfida dell’Olympia si sostituisce una donna orgogliosa e sicura della sua bellezza, che emerge dallo smerigliato sfondo postimpressionista tenendo in mano un bouquet da lei stessa creato (non, come nel caso della prostituta di Manet, fiori regalati da un ammiratore). Ancora una volta, il suo sguardo sottilmente ironico e intelligente scavalca il nostro per dirigersi altrove, magari verso un innamorato cui dedicare uno dei suoi comestibles, versi in cui la sensualità si declina in metafore culinarie: «You made me giddy / Then you poured oiled on my stirred self / I am mayonnaise».
È sufficiente soffermarsi su appena due opere della mostra Florine Stettheimer. Painting Poetry, curata da Stephen Brown e Georgiana Uhlyarik, per restare affascinati da un’artista capace di tracciare una strada alternativa al modernismo più in voga donando alla pittura due qualità essenziali, l’ironia e l’amore per la vita. Concepita per la doppia sede del Jewish Museum di New York e per l’Art Gallery of Ontario di Toronto, dove resterà aperta fino a fine gennaio, la mostra segna la più ampia retrospettiva nordamericana sull’artista concepita finora (la prima, tenutasi al MoMA nel 1946, venne curata con l’aiuto dell’amico di lunga data Marcel Duchamp).
Oltre a raccogliere una selezione eccezionale di capolavori, su tela e su carta, essa colpisce anche per la diversità d’approccio curatoriale rispetto alle esposizioni dedicate a Stettheimer in anni recenti. Esemplare è il confronto con l’unica retrospettiva europea, proposta due anni fa dal Lenbachhaus Kunstbau di Monaco: se in quel caso l’obiettivo era posizionare Stettheimer nel fluire della storia dell’arte mettendone in risalto i suoi rapporti con la tradizione europea, Painting poetry sembra volerci portare all’interno dello studio e delle sfide della vita dell’artista. «Abbiamo concepito la mostra – racconta Uhlyarik – per e con Florine»; ed è difficile immaginare un allestimento più riuscito, rigoroso nel dar conto della filologia e avventuroso nel ricostruire l’atmosfera che si respirava nel salotto newyorchese delle «Stetties», punto di riferimento centrale per critici, scrittori e artisti come Duchamp e Gleizes.
Ma chi era in realtà Florine Stettheimer? Le parole che meglio la definiscono sono quelle del critico Carl Van Vechten: «She did not inspire love, or affection, or even warm friendship, but she did elicit interest, respect, admiration, and enthusiasm». Nata nel 1874 a Rochester, Florine trascorse l’infanzia e la giovinezza in Europa (prima a Monaco, poi a Parigi) in una famiglia di sole donne, tutte incredibilmente ricche, istruite e indipendenti (né lei né le sorelle si sposarono). Divisa in tre sezioni, la mostra ripercorre dall’inizio questa prima fase di formazione, mostrando la versatilità con cui Stettheimer seppe fondere richiami simbolisti e postimpressionisti nei ritratti della madre Rosetta e delle sorelle Ettie e Carrie. Ma è tra il 1912 e il 1914, con la visione dei Balletti Russi di Diaghilev e il definitivo ritorno a New York, che la sua vita prenderà una svolta decisiva, permettendole di abbandonare le suggestioni precedenti per trovare finalmente il suo stile personale. Si arriva così al secondo atto del percorso espositivo, in cui vediamo inanellarsi una serie di capolavori, dalle serie sulla vita di New York fino a Ashbury Park, primo dipinto in cui i neri americani vengono rappresentati nella loro individualità e non in modo stereotipato.
Ma la più sorprendente è la sezione conclusiva, quella dedicata all’attività di Stettheimer scenografa: i disegni e le maquettes per la pièce Four Saints in Three Acts, scritta da Gertrude Stein e portata a Brodway con grande successo nel 1934, vengono inseriti in una rotonda che riproduce il salon dell’artista, mostrando l’inesauribile verve sperimentale che ne guidò il processo compositivo.