Quasi tutto quel che aveva da dire sul mondo, Michel Houellebecq l’ha scritto nel suo primo romanzo, Estensione del dominio della lotta, che nel 1994, precocemente e con intuito a suo modo folgorante, stabiliva un’equazione secca fra neo-liberismo e allentamento post-sessantottino dei vincoli della morale sessuale. Di questa estensione della struggle for life (nel senso del darwinismo sociale) dalla sfera economica a quella della vita privata, in Estensione faceva le spese il protagonista, archetipo di tutti i maschi occidentali di classe media, in varia misura brutti, depressi, tabagisti, alcolizzati, sessuomani, misogini e razzisti, di cui sono popolati i libri di questo scrittore che è uno dei due francesi (entrambi sopravvalutati: l’altra è Annie Ernaux) accolti nel canone contemporaneo dell’editoria e della critica italiana.
Ideologia pasoliniana

Quella fra libero sesso e libero mercato, corresponsabili del definitivo tramonto dei valori umanistici, è un’equazione delirante, visionaria, storicamente molto discutibile, ma capace di offrire una chiave simbolica di innegabile efficacia per spiegare il fallimento della socialdemocrazia europea e del suo modello di convivenza, diagnosticando all’umanità del secolo XXI una radicale trasformazione antropologica. Al discreto successo riservato ai libri di Houellebecq dal pubblico italiano ha certo contribuito l’esibizione di un turpiloquio reazionario e politicamente scorretto, da qualche decennio agli onori della nostra cronaca quotidiana: questo sì, al contrario della rivoluzione sessuale degli anni Settanta, rubricabile come pseudo-trasgressione dagli esiti in realtà conformisti.

Invece, sui riconoscimenti critici, più convinti che in Francia e non di rado sorprendenti, avrà influito soprattutto la condivisione di un presupposto ideologico che non esiterei a definire pasoliniano. In Houellebecq, è frequente il ricorso a un immaginario para-fantascientifico della metamorfosi genetica o chimica: così nel finale, alquanto posticcio del più celebre, e bello, fra i suoi romanzi, Le particelle elementari; così nella novità libraria di queste settimane, Serotonina, uscito quasi in contemporanea Oltralpe e da noi, per La nave di Teseo (traduzione di Vincenzo Vega, pp. 336, € 19,00 con ditirambico risvolto: «è il capolavoro di Michel Houellebecq»), dove un antidepressivo di nuova generazione, il Captorix, consente al protagonista di ritrovare livelli accettabili di serotonina, inibendo tuttavia la produzione di testosterone: l’impotenza è il prezzo della cura (l’inventio non è nelle corde dello scrittore).

Il martire è servito
Ora, l’ossessiva e quasi fideistica certezza che nei decenni recenti la natura umana si sia radicalmente trasformata è il nucleo generativo, appunto (inconsapevolmente?) pasoliniano, di tutto l’universo di Houellebecq; ed è proprio sul terreno scivoloso della «mutazione antropologica» e del suo provincialismo regressivo, sintomo da un lato di una persistente fragilità delle istituzioni democratiche e dall’altro di un’impazienza ideologica incapace di soffermarsi sui fenomeni di lunga durata, che scrittori italiani di estrazione politico-culturale e di caratura intellettuale diversissima finiscono implicitamente per dialogare con l’autore delle Particelle.

Come lui, sono convinti che, di fronte al liberismo, resistere non serva a niente; e che l’entelechia del Sessantotto possa ritrovarsi nei programmi della Tv spazzatura. Perciò, pur provenendo da sponde lontane o perfino opposte, rischiano di ritrovarsi oggettivamente prossimi al romanziere che sta diventando (un po’ a sproposito) il maître à penser di sovranisti e gilets jaunes di tutta Europa.

Con la consueta furbizia opportunistica, infatti, nel nuovo libro Houellebecq regala un martire alla France profonde, dedicando una lunga digressione a un personaggio improbabile, Aymeric d’Harcourt, rampollo di antichissima famiglia normanna convertito in coltivatore diretto e allevatore, collezionista di armi e di vinili rock, eroico paladino dei contadini sempre strafatto di canne e di vodka, un po’ feudatario ancien régime e un po’ capo altermondialista alla José Bové, insomma sintesi araldica degli estremismi di destra e di sinistra, eroicamente suicida, in nome delle quote-latte, di fronte a un plotone di spietati celerini.

Qualunquismo in trionfo
È evidente: della stringata sciatteria stilistica che faceva il fascino respingente di Estensione, resta poco in Serotonina, dove il narratore in prima persona, Florent-Claude Labrouste, dà libero sfogo a una loquela tanto scucita quanto autocompiaciuta e perfino retorica. A ogni pagina, Houellebecq sembra citare stancamente sé stesso. Ma insopportabile, nel nuovo romanzo, non è solo (non tanto) il disco rotto del repertorio sessista: «la sua cosa migliore era il culo, la disponibilità costante del suo culo apparentemente stretto ma in realtà così conciliante (l’originale ha traitable, cioè malleabile), ci si ritrovava costantemente in una situazione di scelta aperta tra i tre buchi, di quante donne si può dire altrettanto? E al tempo stesso come si fa a considerarle donne, quelle donne di cui non si può dire altrettanto?»).

Né disturba più di tanto il diffuso chiacchiericcio qualunquista: il generalissimo Franco è stato «un autentico gigante del turismo»; l’abbassamento dei limiti di velocità provoca «una recrudescenza degli incidenti mortali»; nei libri di Blanchot si leggono solo «stronzate» e «idiozie»; il «buffone austriaco» è Freud, e così via. E neanche la sbilenca contraddizione fra l’immutato rumore di fondo maschilista e la diversissima vicenda esistenziale del nuovo alter ego dell’autore, meno sfigato dei suoi predecessori («non avevo niente da rimproverare alle donne») e addirittura – come in Francia non hanno mancato di notare i recensori più ingenuamente entusiasti – disposto a farsi nostalgico menestrello dell’amore romantico, unico sentimento «capace di trasformare la nostra esistenza terrena in un momento sopportabile»: «Ho conosciuto la felicità, so cos’è, posso parlarne con competenza». La felicità, per la cronaca, è l’innamoramento a prima vista per una brava ragazza, una stagista veterinaria di nome Camille; e poi una vita di coppia durata cinque anni, stupidamente finita per via di una leggerezza – una scappatella con una collega di facili costumi (per di più nera), che «spompinava come una regina».

La verità di un cieco
Ciò che risulta davvero insopportabile, qui più ancora che negli altri libri di Houellebecq, è la boria assertiva di un narratore che pretende di dire la verità su ogni aspetto della vita, intima e politica, ma è cieco e sordo di fronte a ogni manifestazione dell’alterità. A dispetto delle esibite differenze di superficie, nei suoi romanzi è sempre l’autore che gioca a rimpiattino, lasciando facilmente intravvedere, dietro ogni nuova maschera, lo stesso ghigno di famiglia; mentre i comprimari, sia uomini sia donne (ma soprattutto le donne), sono ridotti a figurine inconsistenti, scialbe proiezioni prive di autonomia e spessore.

Se storicamente il romanzo moderno è il genere polifonico per eccellenza, che rappresenta il conflitto insanabile di diversi punti di vista sul mondo, a rigore Houellebecq – capace com’è di rappresentare un solo punto di vista, il suo – non ne fa parte. Di certo non è, come qualcuno ha sostenuto, autore di romanzi-saggio: le idee essendo sempre, nei suoi testi, snocciolate dall’alto, mai concretamente discusse, mai messe alla prova di una complessità orizzontale di rapporti umani. Anche questo, in Italia, intercetta l’aria del tempo: se è vero che giornalisti d’inchiesta alla Saviano, teatranti engagés alla Paolini, una pletora di romanzieri, e perfino qualche poeta, sempre più spesso si arrogano il compito di asserire una verità sul mondo, anziché – come è prassi dei veri scrittori – interrogare, eventualmente senza trovare risposta, le contraddizioni insanabili, le ambiguità irriducibili della vita pubblica e privata.