Il Virgilio, in via Giulia a pochi metri da piazza Farnese, è da sempre ritenuta la scuola della buona borghesia romana. Insieme alla succursale dalle parti di corso Vittorio Emanuele, in questo enorme edificio incastonato tra il Lungotevere e il centro branché dei ristorantini e dei baretti alla moda sono 1400 gli studenti che frequentano le lezioni del classico, dello scientifico e del linguistico. È stato disoccupato dopo otto giorni di occupazione. Ieri gli studenti erano impegnati a rimuovere le barricate composte da banchi e tavoli che spuntavano sui pianerottoli ad ogni giro di scala.

Francesco, 18 anni, non è del tutto d’accordo con quello che ritiene un luogo comune: «In questa scuola c’è chi viene da Val Melaina (un quartiere nell’Agro romano, ndr), da Prima Porta. Ci sono ragazzi che prendono il treno oltre il raccordo anulare, si svegliano alle 5 per vivere e studiare in centro. Qui non ci sono solo i figli degli avvocati, dei giudici o dei professionisti». Per lui, chitarrista in un gruppo jazz-blues, che l’anno prossimo vuole studiare storia all’università e insegnare in un liceo, la scuola pubblica mescola le carte dei ceti e delle classi sociali. I ragazzi del centro come quelli della periferia: giusto che abbiano le stesse opportunità nella vita e sul lavoro. «Mi ritengo fortunato – aggiunge – i miei genitori sono professionisti, ma oggi io come gli altri che non hanno la mia origine viviamo lo stesso problema: avvicinarsi al lavoro non è facile».

A Carlo, un ragazzo del IV scientifico, massiccio, che ha l’aria di tenere tutto sotto controllo quando cammina nei corridoi immensi della sua scuola chiediamo se lo convince il progetto sull’«alternanza scuola-lavoro» predicato anche dalla ministra dell’Istruzione Carrozza: «È una questione complessa – risponde – potrebbe avere un senso in un professionale, ad esempio all’alberghiero dove un tirocinio pagato può essere utile ad iniziare a lavorare. A me non sembra però che la ministra si ponga il problema che in Italia esistono stage e tirocini non pagati, che servono alle aziende solo a sfruttare manodopera precaria, non garantita, senza pagarla nemmeno». Quanto al liceo, chiediamo, è utile questa spinta alla professionalizzazione dell’istruzione? «Molti dei miei compagni di scuola già lavorano – risponde Carlo che vuole fare il medico – questi inviti pressanti potrebbero avere un senso per noi se ci facessero vedere come si fa un colloquio di lavoro, o ci facessero conoscere come si lavora nelle imprese o nei centri di ricerca. Il rapporto con il lavoro è molto più complicato per chi frequenta il liceo perché un lavoro lo si sceglie dopo la laurea che dovrebbe permetterti di fare più lavori, anche diversi da quelli che hai pensato di fare a scuola». «Per questo – aggiunge – la scuola pubblica dovrebbe mantenere la sua valenza generale per tutti». Idee chiare che sono nate, dicono Francesco e Carlo, dietro i banchi oppure frequentando le assemblee del coordinamento degli studenti medi che s’incontra nelle scuole romane, o nel collettivo della scuola che si vede nella vicina piazza della Moretta.

È nata così la convinzione che ha portato a rifiutare i test Invalsi, quelli che misurano la capacità degli studenti nella lettura, nella matematica o nelle scienze. «Al Virgilio li boicottiamo – dicono – Togliamo l’etichetta con il codice della scuola e dell’alunno». Perché lo fate? «Lo sanno tutti che questi test servono per dare più soldi alle scuole migliori – risponde Carlo – il ministero li vuole per creare un divario maggiore tra istituti del centro e di periferia. Così facendo si creano divari culturali ed economici anche tra gli studenti. E se si produce ignoranza, è più facile il controllo. Non sono bastati 20 anni di Berlusconi per capirlo?».

Carlotta, 18 anni, si sta preparando per la maturità. Vuole fare economia e occuparsi di cooperazione allo sviluppo. Le chiediamo a cosa servono le occupazioni. Lei ha fatto politica come rappresentante d’istituto e ha partecipato all’allestimento di uno spettacolo al teatro Valle occupato. «Forse la loro valenza politica è inflazionata – riconosce – ma l’occupazione ha un valore di crescita per le persone che nella vita non hanno la possibilità, o la voglia, di partecipare alla competizione a cui vogliono indurci. Nell’occupazione s’impara a cooperare. Al Valle, l’arte la fanno anche gli attori che non sono grandi professionisti. Qui a scuola c’è un ragazzo pluririmandato che in occupazione ha creato un coro. Lui non è un musicista, ma questo gli ha permesso di essere riconosciuto dagli altri. Questi momenti servono per creare diamanti nel fango in cui viviamo».