«Oh rare Tristram Shandy!» scrisse l’anonimo recensore del «London Magazine» del febbraio 1760 dopo aver letto i primi due volumi pubblicati nel dicembre 1759, «tu tanto sensibile – spiritoso – commovente – umano – incredibile – come ti chiameremo? – Rabelais, Cervantes, che altro? – ci hai procurato un piacere così grande con il racconto della tua vita, – ma non possiamo neanche dire la tua vita, poiché tua madre ha ancora le doglie – che dobbiamo esserti grati per il divertimento». Fu un successo immediato per il parroco di campagna irlandese, Laurence Sterne. E la seconda edizione seguì a ruota. Altri recensori si dichiararono contrari, alcuni dubbiosi. Ma gli scrittori già famosi non ebbero dubbi e si levarono sdegnati contro l’audacia di Life and Opinions of Tristram Shandy, gentleman, un attacco al romanzo così come era stato collaudato nella prima metà del secolo dalla prestigiosa triade Defoe, Fielding, Richardson, con tanto di personaggi, plot, morale, lieto fine e, sottopelle, la nascente teoria del romanzo borghese.
Commenta Manganelli in una conversazione radiofonica sul romanzo inglese del Settecento (1959): «… a dodici anni dell’ultimo volume di Clarissa, si poté vedere a quanto fosse arrivato il rigetto del personaggio classico; una impermanenza totale, un disordine nelle associazioni di idee, un intrico di processi mentali che si svolgono a tutti i livelli; scomparso totalmente il fatto, l’evento, anche i valori entrano in un dolce crepuscolo intellettuale, sono non sai più se emozioni, o capricci o hobbies; e al posto del racconto abbiamo una sterminata sommessa conversazione, o forse il frammentato e diseguale giustapporsi di cauti, discreti monologhi». Il mondano, spregiudicato Horace Walpole dichiarò che quel narrare all’indietro era noioso e stupido, il garbato Goldsmith lo paragonò alle pillole più inutili e disgustose dello speziale, il dottor Johnson ripeteva che quel successo non sarebbe durato a lungo, il giovane Boswell fece in versi una caricatura dell’allegro autore, Samuel Richardson, offeso dalla licenziosità di certi termini, convinse gran parte delle signore a ignorarlo, e fiducioso attese la fine dell’indegno spettacolo. Solo Edmund Burke riconobbe la novità, la forza e la giustezza di quell’attacco, e l’amabile contorno dei personaggi principali.
Sterne si era già provato con nessun risultato (A Political Romance, 1758, mai pubblicato) a seguire l’insegnamento di quegli intellettuali che all’inizio del secolo si erano uniti nel progettare lo Scriblerus Club, con l’irlandese Swift dominante, l’ironico poeta Alexander Pope, l’irrequieto poligrafo John Gay. I loro attacchi satirici, scritti in gruppo o individuali, erano violenti e lasciavano terra bruciata sia che l’obiettivo fosse un nemico personale, la denuncia di una piaga sociale, l’inconsistenza di un modo di fare teatro, la morale (immorale) della politica whig. Lasciarono in eredità anche idee ed esempi, come Memoirs of the Extraordinary Life, Works, and Discoveries of Martin Scriblerus (1741), dove nei primi tre capitoli si narra concepimento, nascita, battesimo, educazione del protagonista, – spianando così la via al piccolo Tristram. Sterne non intese mai imitare Swift, ma di certo riprese l’idea di Gay di rivoluzionare un genere letterario – nel caso di Gay fu l’opera lirica – violandone le premesse, le convezioni, e di fare spettacolo/narrazione, proprio di quel mondo rovesciato upside-down.
La straordinaria libertà compositiva, grafica, umorale, rossiniana del Tristram Shandy, che non ha fissità spazio-temporale, non rispetta la consequenzialità dei fatti né i fatti stessi, non poteva mancare di sedurre un romantico come E.T.A. Hoffman. La tradizione rabelesiana-cervantina dell’origine, raffinata e arricchita nel secolo dei Lumi, gli suggerì Lebens-Ansichten des Katers Murr (1819), un ricco labirinto di paratesti, pretesti, intertesti, nelle cui spire si disperde la sottile nostalgia sterniana per l’amato defunto, l’ incomparabile gatto Murr. «Che creatura buffa l’uomo, che seminatore di stravaganze!» – scrive Jean Paul, il romantico più partecipe del malizioso wit con cui Sterne stringe corpo e spirito, in modo deliziosamente umano – : «… il comico si avvicina al solletico fisico, con quel suo tremito e quella sua oscillazione – come un dittongo e un doppio senso un po’ matto – tra dolore e piacere» (Il comico, l’umorismo e l’arguzia, 1803).
Finalmente La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo esce in un «Meridiano» Mondadori (pp. 1312, € 80,00) per la cura decennale di Flavio Gregori, autore anche di interessanti e generosi apparati critici, introduzione, biografia, commento accuratissimi, e di una ricca bibliografia attenta anche agli ultimi contributi di giovani studiosi italiani. La nuova traduzione ha il merito di essere condotta con singolare acribia da Flavia Marenco de Steinkühl sulle edizioni originali degli anni 1759-’67, curate dall’autore stesso, e confrontate con i nove volumi della nuova edizione critica condotta sotto la direzione di Melvyn New per la University Press of Florida (1978-2014), che ricostruisce l’ampio sistema di allusioni intertestuali e i riferimenti al contesto letterario, culturale e biografico. Le traduzioni italiane precedenti a questa edizione – tra cui si distingue quella più volte ristampata dal 1958 al 1987 di A. Meo –, hanno fatto i conti con la non facile comprensione della frase inglese svelta e allusiva, a volte interrotta da una porta sbattuta, un silenzio improvviso, un segnale tipografico o musicale, una fila di muti asterischi, nascosta in un ghirigoro o sotto una pagina nera o marmorizzata, ornata da un ricamo di gerundi.
L’arduo compito di tradurre quelle righe vivide e sguscianti senza il conforto della Florida Edition – che purtroppo non abbiamo a portata di mano – aveva perseguitato il nostro Foscolo fino all’ultimo dei suoi giorni. Si era innamorato del folle irlandese anche il Rabizzani (1910), che sebbene deplorasse in Sterne la debole tempra morale, era incantato da quell’umorismo esercitato contro i pedanti di ogni specie «ch’egli chiamava con termine stupendo gerundgrinders, masticatori di gerundi». A un collezionista d’arte come Praz, TS suggeriva un edificio romanzesco che «si frange in arabeschi, in svolazzi, capricci; è esso stesso un colossale capriccio che ne contiene infiniti altri a mo’ di scatole cinesi». Architettura gotica o geroglifico o labirinto, quel continuo, beffardo dialogare che gioca tra vuoti e pieni come la linea serpentina di Hogarth, è rivolto a un ascoltatore/lettore perplesso che esita a comprendere interamente il senso. Così s’interrompe – non chiude – l’ultimo capitolo dell’ultimo libro di TS, con l’immancabile doppio senso sessuale: «Signore I- – – o! disse mia madre, cos’è tutta questa storia? – UNA CASTRONERIA, disse Yorick — ma tra le migliori che mi sia mai capitato di sentire». Se per Manganelli Sterne, maestro di «deliziose, false prospettive», fece del romanzo una dichiarazione, uno «strumento della propria libertà» – ancor più conclamata nel Viaggio sentimentale –, per Melchiori, la metastoricità sterniana è ricollocata nel solco della tradizione. Sterne è riscoperto come il prezioso anello che congiunge Rabelais a Joyce. Dopo tanta critica strutturalista, tra cui vorremmo ricordare lo Sterne di Iser, si conclude con Gregori, abilmente riconoscendo che TS «ci riconsegna il compito di ritrovare l’importanza assoluta della vita condivisa nell’irrilevanza di tutte le ‘cock-and-bull stories’ che accompagnano la nostra esistenza individuale».
Resta a minare la tranquillità del giudizio critico quella caricatura di Sterne e la Morte (1765) di Thomas Patch, suo contemporaneo, allegoria di quell’estenuante gioco di rimandi che il linguaggio sterniano gioca contro la sua natura di cosa ultima, contro il tempo della clessidra rovesciata. Come osservò Carlo Levi, le digressioni di Sterne «facevano a nascondarello con la morte», prolungando all’infinito la resa dello scrittore, logorato dalla tisi, al garbato scheletro che aveva a lungo atteso dietro la sua porta.