«I nostri avversari, la stampa e il mondo intero vedranno presto che sapremo prendere altre misure e capiranno che i poteri del presidente per proteggere il nostro paese sono assai sostanziosi. E non ammettono di essere messi in dubbio». Cosí ha sentenziato Stephen Miller, senior advisor di Donald Trump, ospite di un talk show televisivo mattutino alcuni giorni fa.

LA BORIA STRAFOTTENTE Il tema ovviamente era l’interdizione degli immigrati dopo lo stop del tribunale d’appello. Il tono invece era quello consueto di strafottente boria, che accomuna la falange di trumpisti che fanno quadrato attorno al capo in questi giorni di crisi.

Un astio aggressivo e sdegnoso soprattutto verso chi li intervista, dato che la stampa è stata decretata dallo stesso Steve Bannon – ideologo e ormai uomo potentissimo nell’amministrazione Trump – come «partito di opposizione». Che si tratti di Sean Spicer e delle sue sfuriate ai giornalisti assiepati nella sala stampa della Casa bianca o delle sarcastiche filippiche di Sebastian Gorka, emerso come consigliere incaricato all’isteria anti islamica o, appunto, di Miller, delegato alla paranoia xenofoba, il senso è sempre quello.
Miller in particolare brilla per l’arroganza con cui difende la farneticante teoria del complotto dei «5 milioni di voti clandestini» che spiegherebbero la sconfitta rimediata da Trump nel voto popolare.

Apparentemente uno smacco abbastanza cocente per il presidente, tanto da spingerlo ad architettare le bizzarre tesi sostenute dai suoi funzionari. Un’opera in cui Miller si è distinto per alacrità, ricevendone l’elogio pubblico del capo, specie dopo una diretta della Abc News in cui ha sostenuto che è «fatto acquisito» che «migliaia di elettori clandestini siano stati trasportati in speciali convogli in New Hampshire» per impedire una vittoria di Trump in quel minuscolo stato. Le affermazioni sono state definite «fantasia» dallo stesso procuratore (repubblicano) dello stato, ma la fiction fantapolitica della trama è strumentale alla demagogia trumpista.

UNTORI IMMAGINARI I brogli elettorali compiuti da immaginari untori stranieri è una fake news brandita come arma di sfondamento nella campagna di disinformazione che è parte integrante del trumpismo.

La disseminazione seriale delle falsità, il travisamento sistematico dei fatti contribuisce alla decostruzione del linguaggio politico che è, una strategia fondamentale dell’autocrazia postmoderna.

E Miller che snocciola «fatti alternativi» con sfacciataggine degna dell’orwelliano «ministero della verità», ne è un fautore entusiasta,

È una dote che gli ha fruttato l’incarico di scrivere il discorso pronunciato da Trump a luglio nella convention di Cleveland. Ma Miller mostra una vocazione e speciale attitudine per la retorica di (estrema) destra sin dalla formazione liceale che avviene – improbabilmente – a «Samohi», il liceo della illuminata Santa Monica in California. La cittadina-quartiere sul litorale di Los Angeles è spesso derisa dai conservatori come «repubblica popolare» di Santa Monica per l’equo canone con cui tutela gli affittuari e altre leggi progressiste che l’hanno resa celebre come «laboratorio civico di sinistra».

QUEL LICEO A SAMOHI Tutto, si capisce, nella cornice di una delle località più ridenti e facoltose della California, luogo topico dei liberal illuminati che vi risiedono o vi hanno vissuto: da Jane Fonda e Tom Hayden a Robert Redford (di passaggio ci ha abitato pure Bertold Brecht nei mesi lontani dell’esilio nazista).

A Samohi hanno fatto il liceo fra gli altri Martin Sheen, Ry Cooder e Sean Penn – e fra cotanti luminari della Hollywood progressista ha frequentato quelle aule anche Stephen Miller, il quale, non destinato ad una carriera di attore o musicista, in compenso può vantare l’attuale carica di advisor del presidente degli Stati uniti. In quegli anni di studio Miller (classe 2004) si distingue come bastian contrario, deriso dagli altri ragazzi per le posizioni politiche platealmente scorrette che suole esporre, ad esempio, nella campagna per la presidenza dell’unione studentesca.

In quella occasione critica gli annunci pubblici che, come usa in California, gli altoparlanti del campus ripetono in spagnolo per l’oltre 50% di studenti ispanici della scuola. Miller denuncia la consuetudine come sintomo di perniciosa subalternità da parte della «cultura dominante».

Un video girato dai compagni in quegli anni lo ritrae in un comizio in cui proclama: «…ma sono l’unico qui che si chiede perché dovremmo raccattare noi le nostre cartacce quando abbiamo fior di bidelli che dovrebbero farlo?!»

BULLISMO FREELANCE Apertamente repubblicano, Miller non disdegna il bullismo freelance e la provocazione dei ragazzi ispanici in una solitaria crociata contro la solita «correttezza politica».

In tutta la scuola è conosciuto come l’unico che tiene a mettersi religiosamente sull’attenti durante il rito mattutino del giuramento alla bandiera. Comportamenti che tradiscono una ribellione adolescenziale veicolata in un conservatorismo ostentato, ammantato di anticonformismo.

Oggetto della ribellione: il «sistema», quello della famiglia liberal – democratici rooseveltiani – e la scuola che impone, con burocratica solerzia, l’istituzione della tolleranza. Al Franklin Roosevelt cui si ispirano i genitori Miller preferisce l’antesignano cugino imperialista, Teddy, che cita in un’iscrizione nell’albo scolastico dell’ultimo anno: «In Usa c’è posto solo per gli americani veri».

LA TRACCIA POLITICA Uno scarabocchio destinato a diventare traccia politica di una folgorante e ambiziosa carriera e ora, contro ogni ragionevole pronostico, guida programmatica delle politiche di immigrazione della Casa bianca.

Ragazzo sveglio col dono di trovarsi al posto giusto al momento giusto, Miller completa gli studi a Duke University nel North Carolina e si trasferisce a Washington dove il primo incarico professionale lo vede assistente nell’ufficio del senatore ultraconservatore della Alabama Jeff Sessions.

Sullo staff del parlamentare segregazionista, Miller affina il talento – soprattutto sull’immigrazione – aiutandolo nel 2013 a sabotare la riforma proposta da Obama.
Sessions sarà il primo repubblicano a sostenere pubblicamente Trump nella sua ascesa, una sinergia che frutta alla giovane promessa un posto sulla campagna dell’iconoclastico candidato che sta sconquassando l’establishment repubblicano. Il resto come si dice, è storia (recente).

Dopo la vittoria di novembre Sessions viene nominato ministro di giustizia da Trump e Miller è promosso nel pozzetto di Steve Bannon.

NELL’ORBITA BREITBART Un altro passo fondamentale è stato il suo ingresso nell’«orbita Breitbart» e quindi nel vivaio di giovani leoni Alt-right. Qui il nichilismo un po’ «nerd» dell’ex provocatore liceale viene apprezzato e trova anime gemelle nella nuova destra cresciuta al bagliore bluastro dei piccoli schermi collegati in rete.

Ora fa parte della rosa di fedelissimi – Sean Spicer, Kellyanne Conway, Sebastian Gorka e pochi altri – con licenza di apparire in tv per difendere politiche ed estemporanee esternazioni del comandante.

È un ruolo che lo ha elevato, nel caos che secondo molte fonti regna dietro le quinte, a consigliere ideologico di Trump. E i consigli di Miller esprimono un estremismo non temperato dai tempi delle sue giovanili intemperanze.

Legittimato dalla carica più potente al mondo, Miller ha ora licenza di riproporre dal pulpito presidenziale la crociata liceale per una supremazia culturale dell’America bianca, individualista, socialmente darwinista.

L’INTEGRAZIONE CAPOVOLTA L’obiettivo del team di Bannon è nientemeno che il capovolgimento dell’integrazione multiculturale e l’assimilazione delle minoranze che è stato obbiettivo – almeno dichiarato – di mezzo secolo di politiche dei diritti civili.

Un progetto che dipende prima di tutto dall’esautorazione della influenza ispanica, una popolazione vicina al 20% nel paese e maggioritaria ormai in alcuni stati di confine, in particolare quella California «bilingue» tanto invisa al giovane Miller.

Nella retorica Alt-right le aberrazioni del melting pot vengono imputate al globalismo liberista ma la crisi del capitalismo viene strumentalizzata in chiave etno-nazionalista. L’antiglobalismo protezionista è copertura per un progetto di rivalsa etnica ed un egemonismo culturale anglosassone che rievoca la tradizione del destino manifesto della conquista del continente.
Miller – come Bannon e come lo stesso Andrew Breitbart – è cresciuto nel lusso dei quartieri liberal di Los Angeles; il loro «rancore bianco» non è maturato fuori dai cancelli sbarrati delle fabbriche del Rust Belt ma sotto le palme dei country club di Beverly Hills.

Eppure devono il proprio successo alla capacità di articolare il vittimismo del maschio e dell’uomo bianco.

La traiettoria di Stephen Miller è paradigmatico delle dinamiche psicoemotive e generazionali che motivano molta Alt-right. Una parabola che lo ha portato da un adolescenza da Meno di Zero alla politica di American Psycho.