Sotto il titolo Mr. Mercedes (Sperling&Kupfer, pp. 470, euro 19.90) c’è scritto «thriller», e fin qui nulla di strano: la stessa indicazione campeggia nella maggior parte dei romanzi di genere in arrivo dagli states e da mezza Europa. Un certo stupore ti coglie solo quando scopri che l’autore non è Jeffrey Deaver o Michael Connelly ma Stephen King, che passa a ragion veduta per un maestro dell’horror senza nulla a che spartire con l’hard-boiled. La sorpresa è giustificata fino un certo punto: di thriller l’ormai quasi settantenne ragazzo del Maine ne aveva già scritti, sia pur con lo pseudonimo di Richard Bachman, e alcuni elementi tipici del thriller, la suspence sopra ogni altro, abbondano anche nei suoi «normali» horror.
Ma questa prima escursione propriamente detta in territorio limitrofo non dovrebbe cogliere i lettori di sorpresa anche per un altro e più sostanziale motivo. «Re Stefano» non è mai stato un autore di horror puro. Piuttosto nella sua torrentizia produzione confluiscono in un modo o nell’altro quasi tutte le correnti della letteratura popolare o di genere. Come Bruce Springsteen è una sorta di juke box ambulante capace di pescare in sessant’anni di rock’n’roll e affini, così King pesca da tutti i generi, li mischia e miscela nei suoi romanzi, ma a volte li affronta di petto: pulp, western e fantasy, sci-fi , e in realtà parecchi altri generi, dal new age al young adults novel.

Archetipi del genere

Qui però l’intenzione di misurarsi con gli archetipi del thriller è conclamata. La struttura non potrebbe essere più classica: un poliziotto in pensione, ingrassato, solo, depresso, pericolosamente vicino a tirarsi una rivoltellata in bocca. Un serial killer intelligente e fuori di testa, con alle spalle una strage compiuta investendo una fila di disoccupati in cerca di impiego nel cuore della Grande recessione del 2009. È il killer a mettersi in contatto con l’uomo che, subito prima della pensione, non era riuscito a prenderlo. Lo spia, lo contatta in Internet, lo provoca e lo sfida: situazione già vista e letta decine di volte. La posta in gioco dovrebbe essere solo la pelle dell’infelice pensionato, che il folle spera di spingere al suicidio. Di rilancio in rilancio aumenta sino a coinvolgere la sorte di decine, forse centinaia, di persone.
Ma King è King. Non solo sviluppa l’abusata trovata iniziale lungo percorsi narrativi del tutto inediti, ma anche, come sempre, adopera il duello tra detective e killer come occasione per parlare d’altro. Prima di tutto per confrontarsi con la modernità, colta dallo sguardo ormai fuori corso di un ragazzo del XX secolo. Mr. Mercedes è l’istantanea, scattata dal romanziere più realistico che ci sia oggi negli states, della pancia d’America nell’età della rete e delle chat, degli smartphone e dei congegni tecnologici sempre più sofisticati, della Grande recessione (che oggi sembra finita, da quella parte dell’Atlantico) e della Grande Solitudine (che finita non è affatto). Non è una coincidenza se proprio qui, per la prima volta, Stephen King, scrive al presente, adeguandosi a quell’innovazione stilistica del XXI secolo che aveva invece in più occasioni deprecato.
Negli Usa il thriller di King ha avuto un notevole successo nelle librerie, e non è una novità, ma anche nelle critiche, e ormai non è una novità neanche questa. Dopo che per parecchi anni la critica si era ostinata a considerare il golden boy del Maine come un trascurabile scribacchino, il vento è ormai da un pezzo cambiato. «C’è una nuova generazione di critici cresciuta leggendo i miei libri»: il diretto interessato si spiega così l’inversione d tendenza. Anche la passione che ha sostituito il disprezzo, peraltro, ha i suoi limiti. Finisce per applaudire ogni uscita, quando invece la differenza fondamentale tra lo sfolgorante King dei primi quindici anni di attività non è tanto nella qualità dei suoi libri riusciti, che è sempre altissima, quanto nel fatto che all’epoca il maestro dell’horror non sbagliava un colpo, mentre ora oscilla tra livelli sensibilmente diversi, e spesso dà il peggio proprio quando si costringe nei limiti ormai angusti dell’horror.
In secondo luogo, anche la critica più plaudente, proprio come quella antica e a pollice verso, non va quasi mai oltre i confini delle trame perfettamente congegnate, dello stile, della capacità descrittiva. Stephen King, però, non è solo questo. Il suo segreto, in qualunque genere si eserciti, è usare le storie che racconta per scandagliare una parte della realtà che lo circonda. In questo caso la solitudine americana, e in fondo è ovvio che sia così.

Malati di solitudine

L’unica figura tanto solitaria quanto il serial killer, nel panorama della letteratura di genere, è proprio l’investigatore privato, poco importa se a pagamento o, come in Mr. Mercedes,in proprio. Dietro il velo di una caccia all’uomo incrociata e di una tipica «corsa contro il tempo», Stephen King squaderna così, come in una triste galleria, tutti i possibili volti della solitudine nell’età di Internet. Spesso, ma non sempre, accompagnati dal disagio mentale che dalla solitudine nasce o che della solitudine è all’origine.
Il killer che, guarda caso, al momento della prima strage indossa una maschera quasi uguale a quella del personaggio di un film per la tv tratto da un libro di tal King Stephen, Pennywise il clown, è più folle degli altri, più feroce e più disperato, perché più di tutti solo, l’unico del tutto incapace di aprire varchi nel muro che lo rinchiude nei suoi incubi. Ma anche perché alle sue spalle, come spesso capita, c’è una madre solo a prima vista meno folle e il legame malato che li lega. Difficile, dopo decine di libri, sfuggire al dubbio che all’origine della creatività inesauribile di Stephen King ci sia un rapporto per qualche verso traumatico dello scrittore con la pur adorata madre, e che la scrittura fluviale che lo ha accompagnato per tutta la vita sia stata la sua strada per sfuggire a quel trauma. e all’isolamento cui altrimenti lo avrebbe forse condannato.