«Perché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito

del cielo, tu non sia trascinato a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle…». Così

nella Bibbia, (Deuteronomio IV, 19) si afferma la gerarchia inflessibile tra il vero ed

unico Dio e l’influsso degli astri sulla vita degli uomini, stigmatizzando al contempo

coloro i quali la mettono in dubbio.

Eppure ogni inizio di anno l’astromantica, l’antico tentativo della mente umana di

unificare scienza e fede per leggere negli astri in perenne movimento gli auspici

delle cose, ritorna con le rinnovate previsioni dei suoi almanacchi e dei relativi

oroscopi.

 

Ma tutto questo non doveva soccombere definitivamente di fronte alla nascita della

nuova teologia cristiana, all’unico vero figlio del Dio che non poteva ammettere

altro potere sul creato se non il suo? Com’è stato possibile che questa antica arte

si sia progressivamente insediata sino al cuore di quella religione monoteista a

dispetto dei dettami biblici e dei desiderata di San Paolo, il fondatore della Chiesa

istituzionale e della sua teologia politica?

La nascita del Salvatore stesso, infatti, venne annunciata ai maghi orientali proprio

da un astro mobile, comparso per l’occasione nel firmamento delle stelle fisse, e

Caldei erano coloro i quali, leggendo il linguaggio del cielo, avevano seguito il segno,

giungendo a Betlemme con i loro doni.

 

 

L’origine: Babilonia

L’astrologia, cioè l’arte di trarre dai corpi celesti i segni della loro influenza sulle

vicende umane, nasce nell’antica Mesopotamia, nel regno tra i due fiumi, dove

un’atmosfera straordinariamente limpida, arroventata da un sole sfolgorante, fa

apparire le masse celesti ancora più vicine e potenti. Già Diodoro siculo, nella sua

Bibliotheca Historica, (Libro II, cap. IX) così ce ne rende testimonianza: «I Caldei,

che tra i Babilonesi sono i più antichi, tengono in quel Paese il posto che in Egitto

si arrogano i sacerdoti… si applicano per tutta la vita agli studi filosofici e traggono

principalmente assai gloria dall’astrologia. E come molto si occupano dell’arte

divinatoria, predicono le cose future, e cercano, o con le espiazioni, o con i sacrifici,

o con certi incantesimi, di allontanare le cattive vicende o di farne seguire le buone.

E sono anche valenti nella scienza degli auguri, ed interpretano i sogni ed i prodigi, e

certamente vengono reputati profeti esatti».

 

Probabilmente Diodoro, come molti altri studiosi della tarda antichità, conoscevano

bene le tradizioni mesopotamiche in fatto di astrologia, astronomia ed

astromantica; un patrimonio sconfinato di osservazioni oggi solo in minima parte

conservate al British Museum come parte della biblioteca di re Assurbanipal (668-

626 a.C.). Ma quali erano gli oggetti delle interpretazioni astrologiche? Il flusso dei

venti, le piogge o le siccità, la pescosità dei fiumi, la presenza o meno degli animali,

i giorni propizi e quelli infausti per ogni singola attività umana, le cagioni di fortune

e disgrazie, di salute e malattia, di nascita o di morte, i segni per incominciare o

terminare praticamente tutte le attività da trarre secondo particolari fenomeni

naturali o celesti. E dunque non solo di singoli oroscopi si trattava, bensì di previsioni

su un futuro governato dagli astri.

 

I pianeti (in greco antico πλάνητες ἀστέρες , cioè plànētes astéres, stelle

vagabonde) indagati erano quelli visibili ad occhio nudo già nell’antichità: la Luna,

il Sole, Venere, Marte, Giove, Saturno, Mercurio. Essi si muovevano sul piano

dell’eclettica «entrando» di volta in volta nei dodici segni dello zodiaco, già nominati

nell’epopea di Gilgamesh, in relazione ai quali erano osservati. Quando esattamente

queste relazioni furono fissate non è dato sapere, ma certo nel 2000 a. C. già

si sapeva che Venere è sia la stella del mattino che quelle della sera «Che il sol

vagheggia or da coppa or da ciglio», come ci ricorda Dante nel Paradiso (VIII, V 12).

L’arte di interpretare le stelle deve poter prevedere anche la direzione che dal

cielo prenderanno i pericoli incombenti o le prospettive salutari. Ed ecco che a

Babilonia nasce la geografia astrologica, in cui il mondo conosciuto viene diviso in

quattro Paesi corrispondenti alle regioni celesti: Akkad, cioè Babilonia stessa, a sud;

Subartu, ad est di essa, si estende sino all’altopiano armeno ed al Mar Caspio; a nord

troviamo Elam, cioè una parte della futura Persia ed infine, ad ovest, Amurru, cioè

l’Occidente, compresa la Siria e la Palestina.–Ad ognuno di essi veniva assegnato un

pianeta o una costellazione: Giove, ad esempio, è anche chiamato stella di Akkad,

Marte stella di Amurru, mentre le Pleiadi sono assegnate ad Elam. Si sviluppa, da

questa tetrapartizione, anche una divisione temporale, in cui alcuni giorni erano più

fausti o viceversa per ognuna delle aree geografiche corrispondenti.

 

Tutto questo è comprensibile solo alla luce della religione astrale che dominava la

vita degli antichi Babilonesi. Ad ogni pianeta, infatti, non corrispondeva una divinità,

ma erano i pianeti stessi ad esserlo, tracciando nel cielo le loro immutabili «strade»

attraverso le quali influenzavano la vita degli uomini e di tutto il mondo loro

sottostante.

L’esempio più noto, e studiato, di questa identità, è certamente quello tra Venere

ed Ishtar, dea dell’amore e della procreazione, benefica al Paese quando concede

le proprie grazie, dispensatrice di aiuto e di guarigione, patrona della vegetazione. È

lei l’ipostasi babilonese dell’archetipo che genererà l’Afrodite greca e poi la Vergine

Maria madre di Dio, ultima immagine del Principio di cura e manutenzione del

Mondo, epigona della Grande Madre che ai primordi della spiritualità umana ne

dominava le visioni.

 

Manca tuttavia una conoscenza sicura di queste corrispondenze tra divinità e

pianeti; possiamo forse dire che l’antichissima triade divina Anu, dio del cielo; Enlin,

cioè il Signore per antonomasia, dio della terra, ed Ea dio degli abissi marini, altro

non fossero che riferimenti alle diverse «case» che i grandi pianeti occupavano nello

zodiaco. Anche le divinità legate al Sole, in sumerico Utu ed in semitico Shamash

erano riflessi delle qualità dell’astro splendente, della sua capacità di dare morte

con la siccità o vita con il suo calore.

Generalmente benigna, e particolarmente osservata, era infine la Luna, figura della

notte che, nella metamorfosi continua delle sue manifestazioni, ben si incardinava

nella mutevole vita del mondo sublunare. Anche Giove, pianeta di Marduk,

onnisciente creatore del cosmo, vivificatore dei morti, veniva influenzato dalla sua

vicinanza o meno con l’alone lunare.

 

Divinità minori, nel panteon assiro babilonese, erano legate ad altre stelle, capaci

di produrre figure demoniache, metà uomo metà animale, o semplicemente esseri

mostruosi. Queste entità, generalmente malvage, venivano esorcizzate da preghiere

ed amuleti astrali, generati per attirare le forze benigne e dunque cambiare di segno

all’influsso.

La generazione di oggetti ed iscrizioni apotropaiche trova la sua massima

espressione nelle pietre di confine databili XIV secolo a. C., in cui vengono raffigurati

i sette grandi dei come ammalati, cui vengono affiancati testi esorcistici che

chiamano alla loro guarigione attraverso la cosiddetta «preghiera della levata di

mano», un rito di purificazione che troviamo trascritto in un frammento a lettere

cuneiformi in cui Assurbanipal si rivolge ad Orione in questo modo: «Parla, e che

i grandi dei siano con te! Levati e dammi il tuo oracolo!… Accetta la mia levata di

mano, ascolta la mia preghiera! Sciogli il mio incantesimo, annulla i miei peccati!».

Ritroveremo questi stessi demoni all’interno delle cattedrali medioevali, quelle

gotiche in particolare, come espressione diretta dell’influsso orientale astrologico

che, tramite le Crociate, si era mosso verso Occidente.

«La venerazione del cielo stellato» dice Julius Wellhausen, noto biblista tedesco del

secolo scorso «era così radicata nei Semiti, che anche per i monoteisti Ebrei rimase

sempre una grande tentazione, dell’aver resistito alla quale Giobbe così si vanta:

Vedendo la luna avanzare solenne il mio cuore non ne è stato segretamente sedotto

e non ho mandato baci con la mano».

 

 

Gli astri nell’antica Grecia

Come arriva l’astrologia nella Grecia classica, terra della razionalità speculativa, della

filosofia come amore del Vero? Certo agli inizi della civiltà minoica, quella illuminata

dalle taurocatapsie dedicate alle ipostasi teriomorfe della Grande Dea, sospesa

sulla sua altalena nella forma umana, non vi è traccia di culti celesti. Il Sole e la Luna

restano sullo sfondo di quell’arte visionaria che ancora, anche se mercé il papavero,

aveva accesso diretto alla visione della Dea come scaturigine del Tutto.

La stessa religione greca, dopo che i Dori hanno colonizzato l’Ellade, non trae

impulso dagli astri. Le divinità greche sono figure che non nascono o muoiono con o

nella natura, come la Luna o il Sole quando scompaiono dalla vista degli uomini, ma

hanno una esistenza eterna indipendente da tutto.

 

Zeus nella sua forma definitiva, antropomorfa, di capo degli dei, non è il cielo

splendente, anche se il suo nome in origine, all’alba del linguaggio, quando

esistevano le parole-aggettivo, i primi sintagmi come li aveva descritti Saussure,

questo significava. Aristofane dice chiaramente che l’adorazione del Sole e della

Luna sono usanze dei barbari.

 

Ovviamente i marinai Greci si orientavano con le stelle, come pure i contadini

traevano i segni delle stagioni dall’osservazione del cielo, ma in questo rapporto

meramente pratico non vi è nulla di religioso.

Certo nel cosiddetto medioevo Greco, dall’anno mille sino agli albori della filosofia

jonica, quella dell’elemento unificante del Cosmo, del Principio Primo, il luccichio

delle stelle poteva alludere e suscitare un sentimento mistico, ma erano elementi

che mai portarono ad una religiosità astrale: al massimo sentimenti poetici, come

ben ci dice Omero nei suoi versi dell’Iliade (VIII, vv. 762-770): «Quando in ciel tersa

è la Luna e tremule e vezzose a lei dintorno sfavillano le stelle… in cor ne gode

l’attonito pastore». Il saggio viandante jonico, ci dicono Boll, Bezold e Gundel nel

loro Storia dell’astrologia, non venerava neppure il terribile Sirio che con la sua

apparizione in luglio suscita i febbrili giorni della canicola (dalla costellazione del

Cane).

 

Lo stupore attonito con cui nel 648, il poeta Archiloco vede manifestarsi l’eclissi di

sole, «tradisce tutto al di fuori del reverenziale timore del padre Zeus».

È vero che gli jonici avevano anch’essi osservato le stelle, traendone calcoli per

le eclissi come nel caso di Talete, ma mai queste nozioni furono usate per far

corrispondere ai fenomeni celesti il destino degli uomini. Certo la mantica era

diffusissima in Grecia, e spesso portenti celesti erano interpretati come segni divini:

fulmini e tuoni appartengono a Zeus, la caduta di un meteorite suscita il timore del

prolungarsi di una guerra, e ancora nel 463 a.C. Pindaro scrive per i tebani un inno

inteso a placare l’ira degli dei dopo una eclissi.

 

Anassagora vede nel cielo la sua patria, ma in nessun caso questi afflati religiosi

tradiscono un rapporto specifico fra i fenomeni e la volontà degli dei inscritta nel

cielo: sono solo effetti collaterali delle loro volontà superiore. «Di una tecnica

per interpretare in base ad essi il futuro», dicono ancora gli autori della Storia

dell’astrologia, «e di una credenza nel destino fissato nel firmamento, non vi è

traccia».

 

Naturalmente la dottrina dei giorni fausti e di quelli contrari era nota ai greci

dell’antichità, e dunque certi influssi, in particolare di provenienza Egiziana, si

facevano sentire. Ma è con le conquiste orientali di Alessandro Magno e, ancor più,

con le dottrine filosofiche di Pitagora, che i pianeti entrano nella vita dei greci. Vi è

in questo filosofo un chiaro timore reverenziale per gli astri, per la sublime bellezza

del Cosmo, l’intuizione e poi la scoperta di certe leggi, a partire dalle corrispondenze

musicali, che regolano tutto il creato. Questa corrente di pensiero sarà ripresa in

epoca romana da Cicerone quando afferma che «nel cielo nulla ha luogo a caso e

senza un disegno prestabilito».

 

Ma sarà la crisi spirituale del mondo Greco del VI secolo a.C. con la nascita

dell’orfismo, a dare alle dottrine pitagoriche della reincarnazione e dello studio

delle immutabili leggi cosmiche, la forza del misticismo astrologico, il culto di

quelle «divinità visibili» che erano i pianeti e le stelle.

Questo nascente interesse per l’osservazione astrale, unito alla sempre presente

razionalità del pensiero greco, porterà nel II secolo a.C. Aristarco di Samo ad

espellere la Terra dal centro del cosmo ed ad adottare una ipotesi eliocentrica molti

secoli prima di Copernico.

 

Giungiamo così a Platone ed alla sua Accademia che aveva ripreso alcuni concetti

pitagorici arrivando a dichiarare la natura animata e divina dei pianeti, principio

ripreso anche dal suo discepolo Aristotele che, pur criticando il Maestro su molti

punti, tiene anch’egli ferma «la stupenda armonia, come in volontaria osservanza

alla legge che tutto governa, che esprimono ogni notte i pianeti».

 

Apoteosi, è il caso di dirlo, di questa concezione platonica, è la compiuta espressione

della natura astrale dell’anima, ognuna legata ad una stella diversa, espressa nel

Timeo (41 E), ove il Demiurgo assegna ad ogni anima una stella come veicolo: «Dopo

che ebbe costituito tutto, lo divise in anime, tante quante erano gli astri, distribuì

ciascuna anima a ciascun astro, e postele in tal modo come su un veicolo, mostrò

loro la natura del cosmo e disse loro le leggi del Fato». È l’idea dell’astrum in

homine: la ricerca della propria stella interiore come riflesso di quella fitta entro il

macrocosmo cosmico; la ritroveremo anche in Paracelso e, più in generale, in tutto il

neoplatonismo rinascimentale, da Marsilio Ficino a Pico della Mirandola.

 

Arriviamo così a Teofrasto, allievo di Aristotele, che nomina esplicitamente i

Caldei ed esprime ammirazione per la loro arte; ed alla fine del periodo ellenistico

saranno le invincibili legioni di Roma a mostrare il segno del Toro sui loro stendardi

come emblema di Cesare, raffigurazione della congiunzione con la reggenza di

Venere sotto la quale era nata la gens del grande condottiero. Ritroveremo questa

raffigurazione nel Palazzo Schifanoia di Ferrara.

 

Augusto farà pubblicare il suo oroscopo col segno del Capricorno, sua costellazione

natale: le titaniche forze astrali dell’Oriente hanno alla fine vinto l’originaria

razionalità Greca e sono passate vittoriose a conquistare Roma. La cometa apparsa

nel cielo dopo l’uccisione di Cesare viene interpretata da tutti come sidus Julium:

prova sicura dell’assunzione del dittatore tra gli astri che dominano l’Universo. Il

giovane Ottaviano, suo erede, si spinge oltre: vede nella cometa il presagio della

sua stessa ascesa. Nella vita di Tiberio sono gli oroscopi a dettare gli ultimi anni di

regno. Non più Cosmo dunque, ma oramai Universo, questo cielo è una invenzione

prettamente romana, un infinito rivolto da una parte sola, cioè regolato secondo

leggi ferree il cui senso verrà determinato dal nomos del più forte.

Nei secoli imperiali il culto degli astri innerva ogni religiosità pagana. Il Pantheon di

Agrippa e di Adriano, con i suoi rosoncini a forma di stella e l’occhio solare da cui

irrompe la luce, le sette nicchie originarie, altro non è che un tributo ai grandi astri

che dominano il fato degli uomini; «allegoria del cielo» lo chiama lo storico Dione

Cassio.

 

Ancora più avanti, ormai all’inizio della decadenza imperiale, il culto misterico-solare

di Mitra, proveniente dall’Oriente, sussume lentamente tutte le altre divinità; come

ha detto Franz Cumont: «L’astrologia offre alla nuova religione solare una teologia

scientifica, ovvero la dimostrazione scientifica di ciò in cui si crede». La luna, lo

Zodiaco, il Sole, sono elementi fondanti del culto di Mitra. La fede nel Sol Invictus,

eretta a culto imperiale dall’imperatore Aureliano dopo la presa di Palmira nel 273 è

l’ultimo atto della credenza pagana negli astri, tramonterà col decreto di Teodosiano

nel 391.

 

 

Tolomeo ed il cristianesimo

La figura centrale dell’era cristiana in fatto di astrologia è certamente Tolomeo che,

nel secondo secolo dopo Cristo, descrive l’Universo ordinato secondo la centralità

della Terra: immagine che darà all’astrologia una base immutabile di osservazione

sino alla rivoluzione copernicana.

 

È di fronte a questa situazione che si trova a dover profilare la sua alterità il

cristianesimo che deve affermare la nuova fede universale. Come altre religioni

soteriologiche esso offre la salvezza nel «regno dei cieli», dunque oltre l’influsso

degli astri e del fato. Paolo, consapevole che queste credenze nel potere degli astri,

e la loro interpretazione, potevano minare alla base il destino della nuova istituzione

ecclesiale, prende di mira direttamente l’astrologia nella lettera ai Romani (I, 19-

21): «Poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha

manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e

divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso

le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur

avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono

perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata».

 

Qui si afferma per la prima volta l’amore di Dio contro le potenze degli astri e del

destino: in seguito schiere di apologeti cristiani si ispireranno a questo passaggio

per proclamare peccaminosa e vergognosa l’adorazione non di Dio ma del suo

capolavoro, l’Universo, elevando così a falsi idoli il Sole e la Luna.

 

Eppure la forza del culto solare, dal miracolo dell’eclissi alla morte del Cristo, Sole

esso stesso immensamente luminoso ed eterno, preceduto dalla comparsa della

cometa che orienta i Magi verso la Natività, spinge la Chiesa, secondo lo studioso

Joseph F. Kelly nel 336, a rifarsi ad un passo del profeta Malachia che chiama

Dio «Sole di giustizia», per fissarne la data di nascita il 25 Dicembre, cioè quello

che per i pagani era il «genetliaco del sole», in quanto da quel giorno, il solstizio di

Inverno, la luce aumentava: Lux crescit.

 

E così la Luce del Mondo, il Cristo, il Cristallo purissimo degli alchimisti cristiani, non

poteva che essere nato lo stesso giorno. Riflessi di questa sovrapposizione solare

tra Gesù ed il Sole li ritroviamo anche nel tedesco Sonntag o nell’inglese Sunday per

dire domenica che ben più del «giorno del signore», ci dice dell’antica origine del

Natale, frutto dunque dell’inesauribile luce delle stelle.

 

Certo alla fine ci furono degli accomodamenti teologici per cui, a partire dall’epoca

bizantina, ma ancor più dopo le Crociate, si afferma il principio che Dio è in tutto

e che dunque anche negli astri è possibile leggere la sua volontà. Così già Origene

sostiene che gli angeli possono leggere nelle stelle il linguaggio di Dio, come

pensavano d’altra parte molti devoti; Giustiniano però condannò questa visione.

Passano i secoli e l’astrologia si insinua saldamente nella religiosità cristiana: per il

mistico poeta del Parzifal Wolfram von Eschenbach (1170-1220 circa) «non è forse

tutta la vita degli uomini regolata dal giro degli astri?». Anche i Carmina Burana,

giocano con l’azione degli astri nelle cose del mondo.

 

Nei secoli XV e XVI oramai il prestigio dell’astrologia è in costante aumento: Papa

Giulio II fa calcolare agli astrologi il giorno propizio alla sua incoronazione, mentre

Leone X (1475-1521) fonderà addirittura una cattedra di astrologia presso la

Sapienza. Nelle università di Bologna, Padova e Parigi la scienza dell’interpretazione

degli astri fiorisce; in altre parti d’Europa pure: Ottone Enrico del Palatino (1502-

1559) chiede ai suoi dotti di riunire i frammenti sparsi di questa scienza in una

grande libro miniato, Borso d’Este, a Ferrara, siamo verso il 1470, fa dipingere nel

famoso palazzo Schifanoia i celebri affreschi con gli Arcani Maggiori.

E così si arriva al Rinascimento, al grande Pico della Mirandola che, pur

apparentemente avversario dell’astrologia – il suo Disputationes adversus

astrologiam divinatricem verrà usato da Savonarola per scagliarsi contro i maghi –

immerge i suoi pensieri negli studi cabalistici e nella mistica pitagorica e platonica.

Ironia della sorte, la sua morte precoce (1494), che trova conferma punto per

punto in un prognostico astrologico, smentisce alla radice la sua opposizione. Alcuni

sostengono anche che sia stato avvelenato da Marsilio Ficino proprio per la sua

opposizione all’astrologia, ma questa è un’altra storia.

 

Lutero riconosce un segno ammonitore di Dio nel temuto incontro di diversi pianeti

nella costellazione dei pesci, lascito della sapientissima astrologia araba, mentre

Tycho Brahe, il grande astronomo scandinavo dichiara nella prolusione all’apertura

dell’anno universitario del 1579, dopo la pubblicazione del suo oroscopo in onore

del cristianissimo Principe di Svezia e Danimarca: «Dio ha così fatto gli uomini che,

se vogliono, possono vincere le funeste inclinazioni degli astri». Anche Copernico

sarà un astrologo, come Galileo, e perfino Leibniz in qualità di presidente della

Accademia di Prussia, tollera ancora che i suoi calendari presagiscano il tempo dallo

stato dei pianeti.

 

Venne poi ad abbattere ed oltrepassare ogni soglia, illuminato dal fuoco della sua

esecuzione, il pensiero di Giordano Bruno, il sincretico profeta astrologo che però

troppo lontano si era spinto a cercare la fede nella «saggezza della Madre Materia».

Passano così i secoli e l’astrologia resta a presidiare il cuore delle relazioni tra la

terra ed il cielo col beneplacito della Chiesa. Neppure l’Illuminismo poté darle il

colpo definitivo se, ancora ai primi del Novecento, Madame de Thèbes riusciva a

gettare nel panico i francesi con le sue profezie da Pizia contemporanea.

 

Leopardi chiarisce il suo pensiero sugli oroscopi nel celebre Dialogo tra un

viaggiatore ed un venditore di Almanacchi: «Quella vita ch’è una cosa bella, non è la

vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura.

Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si

principierà la vita felice. Non è vero?».

 

Ma è forse Goethe, con il suo genio tollerante e lo sguardo perspicuo per tutto ciò

che humanun est a dire la parola definitiva: «La superstizione astrologica si basa

sull’oscuro senso di un universo sconfinato. L’esperienza insegna che le stelle più

vicine hanno un influsso decisivo sul tempo, sulla vegetazione etc… non c’è che

da salire di grado in grado, sempre più in alto, e chi può dire dove questa azione

cessi?».

 

Sì chi può dirlo? Il calendario di Frate Indovino, pubblicato dal 1945 con rubriche

quali «le stelle parlano» o «vedo e prevedo», e che continua a diffondere in

sei milioni di copie ogni anno le inesauribili osservazioni astrologiche dei Frati

Cappuccini, non è forse ritenuto da noi tutti, credenti e non, un testo di profonda

saggezza che legge negli astri il Segno dei tempi?