Una foto «rubata» di Stella Rudolph a Roma

 

Anthony Blunt e Nicolas Poussin; Denis Mahon e Guercino; Irving Lavin e Gian Lorenzo Bernini: sono numerosi i binomi artista italiano-studioso anglosassone che possono venire in mente per l’arte del nostro Seicento, esempi luminosi di un rapporto continuativo che ha portato alla pubblicazione di pietre miliari, coronamento di anni e anni di ricerche. Del tutto sui generis è il binomio Stella Rudolph-Carlo Maratti, meno noto forse perché qui l’artista in questione, dall’Ottocento in poi, non è più riuscito a entrare nel pantheon dei pittori universalmente riconosciuti e amati; ma anche perché la studiosa non è arrivata a licenziare l’opus magnum al quale lavorava da una vita. La Rudolph ci ha infatti lasciato nel maggio di quest’anno, quando il suo catalogue raisonné di Maratti non era ancora stato consegnato all’editore; uscirà a breve, si spera, a cura di chi prenderà su di sé l’impegno di rivedere l’ingente materiale raccolto e ordinato dalla studiosa. Nata nel 1942 in Connecticut (ma era di origini inglesi), e formatasi prima al Paul Smith’s College, e poi in Italia, nel solco della tradizione longhiana, con Carlo Volpe e Mina Gregori, la Rudolph fu per tutta la vita un independent scholar, non lavorando per alcuna istituzione, privata o pubblica.
Sebbene non gli sia mai stata dedicata una mostra importante, Maratti (1625-1713) fu artista di enorme successo al suo tempo, conquistando lo status di massimo rappresentante della scuola romana, venendo conteso dalle corti di mezza Europa, e ottenendo fin dal 1681 il diploma di «peintre du roi» conferitogli dal Re Sole. Allievo di Andrea Sacchi, capace di aprirsi anche al linguaggio del suo rivale, Pietro da Cortona, dopo la morte di Bernini (1680) Maratti divenne l’arbitro dell’arte romana, ricapitolando le conquiste di un secolo di pittura, da Annibale Carracci in poi, in un formula perfetta sostenuta da un mestiere impeccabile: non un rivoluzionario, insomma, di quelli che strappano più facilmente l’applauso.
Lungo la faticosa strada che doveva portare a quella monografia, la Rudolph aveva pubblicato un saggio che rimane il suo lascito più prezioso agli studi. Il rapporto assiduo, forse ossessivo, che ha stretto assieme la Rudolph e Maratti si fece da subito particolarmente complesso, da quando cioè la studiosa si rese conto che per mettere perfettamente a fuoco la figura del grande pittore era necessario studiare a fondo anche quella del più ampio contesto culturale dell’epoca, a partire dalla figura del suo maggiore committente, il marchese Niccolò Maria Pallavicini (1650-1714): accanto all’artista e al suo studioso, qui si deve allora considerare anche il mecenate, figura che affascinò la Rudolph anche perché sfuggente, un ricco banchiere che da una posizione non preminente (egli era soltanto il figlio naturale di uno dei membri della nobile famiglia genovese) arrivò a incidere in profondità sul gusto di un’epoca.
La Rudolph cominciò ad occuparsi di quel committente nel 1979, ma sarebbero passati più di quindici anni prima che, inguaribile perfezionista, desse alle stampe il saggio di cui si è detto. La studiosa aveva esordito con articoli dedicati al rapporto mecenati/pittori nella Firenze tra Sei e Settecento, raccogliendo da subito l’eredità di Francis Haskell e dei suoi Patrons and painters (1963). Quello era il tema sul quale la studiosa avrebbe dato il meglio di sé: il libro pubblicato nel 1995 (da Ugo Bozzi) si intitola Niccolò Maria Pallavicini: l’ascesa al tempio della virtù attraverso il mecenatismo, e il suo primo protagonista è il committente, non il suo pittore prediletto. In copertina era riprodotto un dipinto monumentale, manifesto di un’intera stagione culturale, la Roma al tramonto del Barocco: un’opera da leggere attentamente alla luce delle biografie e delle aspirazioni di autore e committente.
Nella tela Apollo e le Grazie additano al Pallavicini il tempio della virtù, mentre lo stesso Maratti, in basso a destra, si è autoritratto impegnato a eseguire, si immagina, il ritratto del marchese. A evidenza un’opera di grande ambizione, celebrativa tanto del committente quanto del pittore; per la presenza di quest’ultimo dentro la tela potrebbero venire in mente Las Meninas di Diego Velázquez, un confronto, peraltro, dal quale il capolavoro di Maratti finirebbe per uscire schiacciato, rivelandosi solo come un macchinoso travestimento allegorico della realtà, ovvero il frutto di quella cultura letteraria tutta d’accademia che, oggi, certo non ci appare proiettata sulla modernità. E la pittura colta di Maratti, imbevuta di riferimenti ai grandi modelli dell’Antico, di Raffaello, e anche di Domenichino, perfettamente in linea con quella cultura letteraria, oggi soffre delle medesime censure.
La Rudolph è stata un’esegeta insuperabile di questa precisa temperie artistica, letta in stretto rapporto con la cultura fiorita intorno all’Accademia d’Arcadia, fondata a Roma nel 1690 per rinnovare la letteratura, prendendo le distanze dal Barocco. Si trattò di una riforma importante, ma non di una svolta radicale: proprio come Maratti, nessuno dei poeti arcadi è entrato nell’empireo della letteratura italiana, e quella celebrazione allegorica del Pallavicini, il marchese imparruccato e pesantemente paludato, accompagnato da un flebile Apollo dalle nudità strategicamente coperte, è, suo malgrado, una sintesi perfetta di siffatta cultura.
Il dipinto-apoteosi del Pallavicini era citato in una guida di Roma già nel 1700, ma Maratti vi compariva con la Croce di Cristo, ricevuta nel 1704. La Rudolph ipotizzava inoltre fosse stato concepito nei primi anni novanta, quando il marchese era stato accolto prima fra i pastori d’Arcadia (1692) e poi, come accademico d’onore, nell’Accademia di San Luca (1695). Lo stesso Maratti, membro dell’Arcadia dal 1704, due anni dopo sarebbe stato nominato principe a vita dell’Accademia di San Luca. Questa allora la conclusione della studiosa: «Al cospetto di questo palinsesto, risultato di quindici anni di lavoro, viene spontaneo chiedersi perché il maestro continuasse a pasticciare sul quadro, dacché lo si riteneva un capo d’opera fin dall’inizio. (…) La risposta al primo quesito deve tener conto dell’intrinsichezza dei due amici, indubbiamente radicata in una convergenza di vedute anche esistenziali, che convogliava ad una spietata registrazione della propria caducità in un processo, per certi versi analogo a quello poi romanzato da Oscar Wilde nel Portrait of Dorian Gray, volto ad annotare puntualmente il passar degli anni su questa tela utilizzata a mo’ di diario privato». Riletto oggi, all’indomani della scomparsa della studiosa, questo brano non può non commuovere: la Rudolph lo scriveva dopo un serrato confronto a distanza, di appunto quindici anni circa, tanto con Maratti quanto con il Pallavicini, che aveva seguito e indagato attraverso fonti e documenti d’archivio; e mentre ancora lavorava alla monografia sul pittore.
Se la Rudolph faticava a chiudere le sue ricerche era per l’inesauribile curiosità, la necessità sempre urgente di allargare il campo, tratteggiare un quadro ampio. Non solo Maratti, e neanche solo Maratti e Pallavicini. Al centro del libro del 1995 sono anche tutte le vicende successive alla scomparsa del marchese, con il passaggio della sua collezione da Roma a Firenze, e poi all’Inghilterra, dove il capolavoro di Maratti finì nel 1758, nella contea di Wiltshire, a Stourhead. Così in quella superba country house, il sogno dell’Arcadia di Maratti e Pallavicini trovava il suo approdo ideale, al centro di una galleria di pittura italiana rimasta intatta, una scheggia della Roma del Settecento circondata dal più straordinario esempio di parco all’inglese, disseminato di piccoli templi all’antica simili a quello a cui era in procinto di ascendere il marchese. Un paesaggio «in cui la natura artefatta dei quadri di Claude diventava realtà concreta eppure evocativa, quindi struggente perché in bilico tra l’Arcadia immaginata dai verseggiatori dell’omonima accademia, il pittoresco e il sublime concettualizzati da diversi scrittori coevi, e la poesia tendente a quell’afflato romantico che sfocerà nella generazione di Wordsworth».
La Rudolph ci ha lasciato contributi fulminanti anche su altri artisti di rilievo, mai però figure di grande notorietà o peggio di moda (d’altronde non lo era lo stesso Maratti), quanto piuttosto protagonisti da trarre fuori dall’ombra, quali Domenico Corvi e Bernardino Nocchi. Ma dopo il 1995 la studiosa sarebbe intervenuta quasi unicamente sul solo Maratti, il suo migliore amico. Proprio come la Rudolph faceva a proposito di Maratti al lavoro sulla tela di Stourhead, molti storici dell’arte si sono chiesti negli anni perché lei «continuasse a pasticciare» sulla monografia mai chiusa. Evidentemente anche quel libro, proprio come la tela con il Pallavicini per Maratti, era divenuto un po’ un’opera autobiografica, e la Rudolph non poteva separarsene: avrebbe significato dire addio alla sua vita di studiosa.