Il 22 giugno 1941 l’operazione «Barbarossa» dava inizio all’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Wehrmacht, il punto di svolta della catastrofe che la guerra nazifascista al mondo rappresentò negli anni 1939-1945. Il discorso tenuto 80 anni dopo dal Presidente della Repubblica Federale Tedesca Frank Walter Steinmeier, presso il museo russo-tedesco di Karlshorst a Berlino, ha segnato un passaggio eterodosso sia rispetto alle tendenze storico-populiste che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni del discorso pubblico sul passato sia rispetto alla stretta attualità politica, tanto da suscitare le ire dell’ambasciatore ucraino a Berlino, Andrij Melnyk, che ha rifiutato di partecipare alla cerimonia perché, a suo dire, troppo centrata sulla storia dell’Urss.

Il Presidente tedesco, nell’edificio che fu il quartier generale sovietico dove la Germania firmò la resa l’8 maggio 1945, muove il suo discorso dal racconto del veterano russo, Boris Popov: «la guerra di cui parla Popov -scandisce Steinmeir- è iniziata due anni prima con l’invasione tedesca della Polonia». Non è un’affermazione scontata visto che il 19 settembre 2019 il Parlamento europeo ha votato una risoluzione sulla memoria storica che equipara nazismo e comunismo come regimi «totalitari» ed assegna, contro ogni senso della storia, le responsabilità dell’inizio della Seconda guerra mondiale tanto alla Germania quanto all’Urss.

La dimensione della «guerra totale» sistematizzata come modus operandi dal nazismo manifestò la natura intrinsecamente politico-ideologica di un conflitto nuovo «da un lato- scrive Eric Hobsbawn- i discendenti dell’illuminismo e delle grandi rivoluzioni compresa, ovviamente, la Rivoluzione russa; dall’altro i suoi oppositori. Progresso contro reazione».

In questo portato storico-valoriale Steinmeier colloca il carattere dell’invasione tedesca «fin dal primo giorno guidata dall’antisemitismo e dall’antibolscevismo, dalla follia razziale contro i popoli slavi e asiatici dell’Urss». La distruzione di città e villaggi, la deportazione e lo sterminio di centinaia di migliaia di persone, le fosse comuni e la morte di 27 milioni di cittadini sovietici non rappresentarono soltanto una spietata misura della guerra ma l’applicazione del principio della «inimicizia assoluta» (definita da Carl Schmitt) e della «disumanizzazione dell’altro». Eppure «questi milioni -continua il presidente tedesco- non sono così profondamente impressi nella nostra memoria comune come richiedono la loro sofferenza e la nostra responsabilità».

I conti con la storia sono un processo collettivo complesso che informa il profilo delle società contemporanee non esaurendosi nemmeno in un Paese che ha sì celebrato il processo di Norimberga ma che registrò una forte continuità dello Stato nella transizione dal Terzo Reich alla democrazia. La rielaborazione del passato interroga la misura del presente; spiega da dove veniamo ma anche il percorso che ci ha portati ad essere ciò che siamo; si rinnova nella trasmissione del sapere alle nuove generazioni sempre più lontane anagraficamente da quei fatti eppure ad essi vincolate da una radice d’origine.

La Resistenza del popolo sovietico salvò il mondo dal regresso di civiltà del nazifascismo, facendosi carico di quella barbarie e combattendo una guerra assoluta impressa nell’immaginario collettivo dall’assedio di Leningrado e dalla vittoria di Stalingrado che portò l’Armata Rossa a Berlino.

«Quella guerra criminale di aggressione indossava l’uniforme della Wehrmacht» ha detto Steinmeier. Su questo punto ci permettiamo di correggerlo. In Russia c’erano anche le uniformi del regio esercito italiano e delle camice nere al fianco dei nazisti. Al termine del conflitto il governo di Mosca consegnò una prima lista di criminali di guerra italiani (12 nominativi) che avrebbero dovuto rispondere delle violenze contro civili, partigiani e soldati sovietici.

Le ragioni della Guerra Fredda e la nuova collocazione «atlantica» dell’Italia nella divisione bipolare del mondo permisero l’impunità per i crimini compiuti nella guerra fascista (così come accadde per i Balcani e l’Africa) dai militari inquadrati nel Csir e nell’Armir.

Da questo vulnus emersero da un lato il mito degli «italiani brava gente» e dall’altro la narrazione dell’invasione dell’Urss raccontata nell’unica dimensione del tragico «ritorno a casa» dopo la rotta del fronte militare.
Espedienti narrativi usati ancora oggi dalla retorica celebrativa nazionalista per sottrarsi a quei conti con la storia che aiuterebbero non poco il nostro Paese ad orientare il senso del presente e cogliere, come ha fatto la Germania, «il senso di Liberazione di quella sconfitta» stringendosi attorno alla grande eredità dell’antifascismo come fattore dell’identità europea.

In attesa di vedere, un giorno, un Presidente della nostra Repubblica nata dalla Resistenza inchinarsi, come ha fatto Steinmeier, di fronte a donne e uomini che hanno combattuto contro la Germania nazista e l’Italia fascista nelle file dell’Armata Rossa.