«L’arte è una sfinge. Il bello della sfinge è che devi interpretarla. Quando hai trovato un’interpretazione, sei già guarito. L’errore che le persone spesso commettono è di pensare che la sfinge possa dare solo una risposta corretta. In realtà ne dà cento, mille, forse nessuna. L’interpretazione può non dirci la verità, ma il suo esercizio ci salva». Questa di Saul Steinberg è una affermazione che entra immediatamente in risonanza con la grande opera di collage murale Art Viewers. L’artista l’aveva realizzata per una sua mostra personale alla Galerie Maeght di Parigi, dove fu esposta dal 25 marzo al 23 aprile del 1966. Poi quell’opera, smontata e rinviata negli Stati Uniti, fu rinchiusa in deposito e mai più riproposta. Di recente Art Viewers ha rifatto il viaggio inverso: la Saul Steinberg Foundation di New York l’ha donata al Centre Pompidou che ne ha rimontato i pezzi su una tela di tre metri di altezza per quasi sette metri di lunghezza. E qui e oggi, fino al 28 febbraio, è al centro di una mostra sotto la direzione di Anne Montfort-Tanguy e Valérie Loth: Saul Steinberg. Entre les lignes (catalogo Éditions du Centre Pompidou, pp. 152, euro 35,00). Nella galleria d’arte grafica, per la prima volta, vengono esposti insieme a questo raro esempio di opera murale i trentacinque disegni donati nel 2017 dagli American Friends of the Centre Pompidou. Essi, con altri prestiti importanti, collocano Art Viewers in una certa prospettiva, che ci permette di meglio coglierne la portata e leggere «tra le linee» le stratificazioni tematiche della complessa semplicità steinberghiana.

Come ci racconta Sheila Schwartz in catalogo, Art Viewers è un collage murale realizzato con ingrandimenti di disegni di Steinberg. Esso è stato preceduto da un collage monumentale – The Americans – di tre metri di altezza per settanta metri di lunghezza, che l’artista ha realizzato nel 1958 in rappresentanza degli USA all’Esposizione Universale di Bruxelles. Ed è proprio il collage lo strumento espressivo più congeniale alla sua intelligenza, capace come poche di sintetizzare gli elementi «alti» e quelli «bassi» della cultura occidentale. Steinberg amava dire di essere nato «in un college di collage», essendo stato il padre, in Romania, un fabbricante di scatole decorate, e avendo avuto a disposizione per tutta la sua infanzia i materiali più disparati. Del resto anche i disegni realizzati per riviste e giornali erano corretti talvolta con aggiunte di pezzi di carta lasciati ben in evidenza, e le maschere prodotte a partire dal 1959 sono poi esse stesse divenute collage.

Queste maschere – rese famose dagli scatti di Inge Morath, che ritraggono l’artista da solo e con i suoi amici mentre le indossano – sono nate dai sacchetti di carta marrone in uso nelle drogherie americane dell’epoca. Su di essi Steinberg ha disegnato una copiosa serie di fantasiosi ritratti di tipi umani. Successivamente vi ha aggiunto anche il resto del corpo, venendo così a creare delle figure intere che ricordano quelle un po’ totemiche poi realizzate per Art Viewers. Qui il tema della maschera, del simulacro, della postura-impostura dell’amante dell’arte è molto presente. Come è altrettanto presente, nella complessa dialettica tra la maschera e l’io, il dubbio iperbolico che attanaglia chi si pone davanti a quest’opera: ovvero la questione di cosa sia più reale, se la smorfia delle maschere realizzate dall’artista o la nostra, mentre vi cerchiamo rifugio. Perché in fondo è questo uno dei paradossi visivi a cui ci sottopone Steinberg nel renderci osservatori di un’opera d’arte di osservatori di opere d’arte. Il circuito umoristico di figure a grandezza umana – che tra il geometrico e il grottesco mai crederemmo capaci di indurci all’immedesimazione – cede improvvisamente il passo a un cortocircuito di rispecchiamento nei suoi personaggi, che sono o proni a cogliere ogni dettaglio anche delle opere più insignificanti, o deambulanti in galleria in modo del tutto apatico. E così anche noi diveniamo steinberghiani: cioè labirintici, vaniloquenti, astratti, goffi o indifferenti. Non è un caso che l’artista abbia detto una volta che «le persone che guardano l’arte sono ancora più interessanti dell’arte stessa».

Se pensiamo solamente alle settecentesche Gallerie del Pannini e al più moderno Les Amateurs de peinture di Daumier, ci rendiamo conto che la rappresentazione dell’osservatore dell’opera d’arte non è nuova. È Steinberg a rinnovarla, a renderla osservazione sociologica, e al tempo stesso metafisica. Art Viewers è in qualche modo il capolinea personale di una serie di riflessioni sul tema. A partire dalla vignetta realizzata nel 1947, quando si tratta di commentare visivamente il gusto artistico sostanzialmente conservatore degli americani – analizzato da Russell Lynes in The Taste Makers –, Steinberg rappresenta donne in pelliccia, perplesse, davanti a quadri astratti. E già in questo disegno si può osservare ciò che giustamente dice Joel Smith, e cioè che «l’arte sull’arte è una delle strade percorse da Steinberg per affrontare il suo tema preferito: l’influenza reciproca dell’osservatore e dell’oggetto osservato, ricreando il mondo della percezione e dell’imitazione sul modello del nastro di Möbius». E il caso più eclatante è in questo senso il disegno del 1965 in cui il visitatore diviene come il quadro di Mondrian mentre lo osserva.

Lo stile Art déco dei busti della maggior parte delle figure di Art Viewers segue la stessa logica, ma rappresenta anche in fondo l’amore di Steinberg per questo «cubismo divenuto ornamentale» tipico di una certa architettura newyorkese, come per esempio dell’Empire State Building o del Chrysler Building. Tuttavia l’astrazione delle linee non è solo nelle opere e nelle figure. È anche nei balloon, mutuati dal mondo dei fumetti, che, appoggiati alle labbra, branditi come pugnali o vaganti nell’etere, contengono false calligrafie, arabeschi insignificanti, scarabocchi e discorsi insensati. Nell’opera c’è anche spazio per l’atto creativo rappresentato dal tavolo da disegno e dal cavalletto posticcio, entrambi fatti da più pezzi incollati. Italo Calvino, nell’interpretare i continui rovesciamenti steinberghiani tra realtà e finzione, coglie nel segno quando sembra imitarne lo stile scrivendo: «Il mondo disegnato non manca di forza: invade il tavolo, cattura ciò che gli è estraneo, unisce tutte le linee alle sue, deborda dal foglio di carta… No, è il mondo esterno che viene sul foglio per farne parte: la penna, la mano, l’artista, il tavolo, il gatto, tutto è preso nel disegno come in un turbine (…) No, è la sostanza del segno grafico che si rivela come la vera sostanza del mondo, le iniziali o l’arabesco di una scrittura serrata, febbrile, nevrotica, che si sostituisce a tutto un altro mondo possibile».

Steinberg poi si autocita disseminando l’opera di finti disegni, piramidi, lettere dell’alfabeto e tre ritagli di dischi in vinile, a simulare, con questi ultimi, gli Steinberg Records, cioè dischi litografati su acciaio smaltato realizzati lo stesso anno. E in fondo possiamo dire che Art Viewers non è solo una summa delle sue esplorazioni fino a quel momento. È anche un’opera che anticipa lavori successivi, come Collection del 1971, in cui simula effetti prospettici con finti dipinti realizzati su forme trapezoidali. Steinberg, spostandosi dall’osservatore al luogo di osservazione, rappresenta la pura rappresentazione di opere d’arte in un fantasmagorico corridoio di museo. E stavolta gli osservatori, reali e irreali, siamo noi, intrappolati tra le linee.