Gomorra è stato il caso televisivo dell’anno, la serie ispirata al romanzo di Saviano in dodici capitoli ha ampliato le storie di camorra e pur restando nei codici del genere, ha evitato cliché e falsmi moralismi. Rispetto a Romanzo criminale – accusata di addolcire i personaggi e renderli più gradevoli al pubblico – qui nessuna empatia è possibile con i caratteri dei protagonisti che sono e restano mostri.

Lo spiega il regista dei dodici episodi ambientati tra le strade di Scampia, Stefano Sollima, figlio d’arte (Sergio è stato un maestro spaghetti western nei ’60 e ’70) affermatosi con il drama basato sui fatti della banda della Magliana, e già al lavoro sulla seconda stagione di Gomorra le cui riprese inizieranno a inizio 2015: «In generale non dovremmo mai sottovalutare l’onestà intellettuale degli scrittori e degli autori.

Era evidente che rispetto a Romanzo criminale la materia stessa di Gomorra dovesse essere riportata in altro modo. La sfida era raccontare quel mondo nel modo più reale possibile, quindi privilegiando il punto di vista organico del sistema. Se racconti un personaggio nella sua totalità devi pensare che è inevitabile possa compiere azioni detestabili e al contempo mantenere elementi ’umani’. Ma poi entra in gioco l’aspetto sociologico, contestualizzi quelle vicende e metti in scena un mondo che lo spettatore conosce ma non così approfonditamente. L’altra sfida era fargli vivere il racconto da un altro punto di vista, con il brivido di stare dall’altra parte».

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Trent’anni fa la Rai con La Piovra portò per la prima volta al grande pubblico i meccanismi malavitosi con un approccio realistico, ma per non rischiare una deriva troppo romanzata si affidò a registi dall’impegno civile assodato, come Damiano Damiani o Florestano Vancini. Qui si è invece realizzato un prodotto mantenendo una sua precisa specificità di genere…

«Quando mi hanno chiamato per fare Gomorra, dopo aver letto e riletto il libro ho fatto una proposta che era esattamente questa, ovvero una fiction con gli elementi classici del realismo italiano abbinata a una rappresentazione che cinematograficamente fosse di notevole impatto. Quando mi sono incontrato con la produzione e Sky ho detto: proviamo a fare una sorta di «Scampia Vice»… L’obiettivo era una serie di grande intrattenimento con un’attenzione sulla cronaca molto spiccata. Tanto da non aver altra scelta che girarla nei luoghi i cui i fatti erano realmente accaduti, cosa che inevitabilmente ha reso all’inizio più complesso il racconto».

Sollima allude alle lamentele delle associazioni di Scampia che hanno ritardato l’inizio delle riprese: «Nel momento in cui vai ospite in un quartiere e in una realtà ’diversa’, il buon senso ti suggerisce sempre il confronto. La ricerca del contatto con la gente ci ha aiutato anche a creare Gomorra così com’è. È tutto nato in parte dal pregiudizio, perché tutti avevano visto Romanzo criminale e la domanda che ci è stata posta, sicuramente legittima, è stata: non è che fate la stessa operazione sulla camorra? Ovviamente la risposta è stata negativa, abbiamo spiegato che il nostro sarebbe stato un racconto cinematografico, parziale per definizione. Perché si sceglie di seguire una storia e non tutte le altre. Qualsiasi evento tu potrai narrare, ambientato in un qualsiasi momento o periodo storico dovrai sempre operare una scelta, racconterai una storia invece di un’altra. Noi abbiamo ritenuto che Gomorra fosse abbastanza paradigmatica di un mondo e quindi da questo confronto è nata una collaborazione che ha portato alla realizzazione, ad esempio, dei cortometraggi e dei corsi alla scuola di cinema».

Carlo Freccero che ha assunto la direzione del prossimo Roma Fiction Fest (13-18 settembre) è molto polemico nei confronti delle serie generaliste: «In Italia concepiamo solo due generi di fiction – accusa dalle colonne del Corsera -: quella di puro divertimento, consumo, distrazione e quella edificante con eroi preti giudici e santi, rivolta al passato. In America, soprattutto con la pay tv si sta affermando una fiction che addirittura prevede e interpreta il futuro». Vero, in Italia non ci si affranca da questi modelli, Gomorra e altre produzioni Sky sono tentativi, ma isolati…: «Sono d’accordo tanto più che ora il concetto di televisione sta radicalmente modificandosi. Oggi non giri canale, cerchi il contenuto – come fanno le generazioni più giovani – e magari lo trovi su web. Ma un po’ sta cambiando, anche perché non puoi misurarti sempre con l’audience ma pensare da un altro punto di vista. Certo gli ascolti di Gomorra su una pay tv (800 mila spettatori, ndr) sono pochi se confrontati con quelli Rai o Mediaset. Però nel momento in cui sommi alla fine del percorso il pubblico dei 60 paesi in cui la serie è stata acquistata, potresti restare piacevolmente sorpreso…».

Negli Stati uniti la fiction sta occupando uno spazio per anni all’appannaggio del cinema indipendente: produzioni curatissime, girate senza problemi di censura e capaci di affrontare argomenti senza tabù. E ora (va detto grazie anche a compensi di tutto rispetto…) gli attori non si fanno più molti problemi a misurarsi con il piccolo schermo. Come dimostra il premio Oscar Matthew McCounaghey e il suo eccellente lavoro in True detective

«Io aggiungerei un’altra cosa, queste produzioni televisive – True detective certo ma citerei Breaking Bad, Mad Man rinnovano la tradizione dei classici che cinematograficamente oggi non avrebbe più senso produrre. Ad esempio la storia dei due poliziotti che danno la caccia al serial killer al cinema farebbe fatica a trovare finanziamenti. Da noi ci stiamo provando, mescolando una specificità italiana che è apprezzata anche all’estero. Lo facevamo nei settanta ma per motivi misteriosi abbiamo smesso di produrla…».