Il processo bis per la morte di Stefano Cucchi entra in una nuova fase. Ieri davanti ai giudici della Corte d’Assise di Roma hanno deposto alcuni dei testimoni chiave del tentativo (riuscito per nove anni) di insabbiare il pestaggio del giovane geometra romano da parte dei carabinieri che lo arrestarono la sera del 15 ottobre 2009, e del depistaggio delle indagini (nel primo processo, infatti, ad essere accusati delle violenze furono gli agenti di polizia penitenziaria che custodirono Cucchi in tribunale prima dell’udienza di convalida del fermo).

Testimoni – alcuni dei quali sono ora indagati – chiamati dal pm Giovanni Musarò nell’ambito dell’inchiesta integrativa al processo aperta in seguito alla denuncia presentata il 20 giugno scorso da Francesco Tedesco, uno dei cinque carabinieri imputati che ha deciso raccontare la verità su quanto accaduto quella notte, peraltro già trascritta in un’annotazione di servizio depositata negli archivi della caserma Appia la sera stessa della morte di Stefano, ma poi scomparsa nel nulla.

È UNO DEGLI INDIZI dell’insabbiamento e del depistaggio, ma ieri sono diventate prove dibattimentali anche altre due testimonianze: quella del luogotenente Massimiliano Colombo Labriola (da settembre entrato nel registro degli indagati di questo secondo filone d’inchiesta), comandante della caserma di Tor Sapienza dove Cucchi passò la notte, ma a sua insaputa: non venne infatti avvisato malgrado dormisse nell’alloggio di servizio della caserma, e seppe di quanto accaduto durante la notte solo al suo risveglio, il mattino dopo. In udienza anche la testimonianza dell’appuntato scelto Gianluca Colicchio che era di turno a Tor Sapienza, prese in consegna Stefano e chiamò il 118 quando il giovane cominciò a sentirsi male. Colicchio, a differenza dell’altro piantone, Francesco Di Sano, si rifiutò di firmare le modifiche imposte «da ordini gerarchici» al verbale nel quale descriveva le condizioni fisiche di Cucchi all’arrivo nella stazione.

ERA IL 27 OTTOBRE 2009, durante la visita quadrimestrale dell’allora maggiore Luciano Soligo, comandante della compagnia Talenti-Montesacro dalla quale dipendeva la stazione di Tor Sapienza: Colombo Labriola, riferisce il carabiniere, gli chiese di portargli l’annotazione di servizio che aveva steso la sera precedente. «A fine turno Soligo mi chiese di firmare l’annotazione, ma mentre lo facevo mi resi conto che era stata modificata, non solo nella forma ma nella sostanza, e così mi rifiutai. A quel punto – prosegue Colicchio – telefonarono al tenente colonnello Francesco Cavallo (all’epoca vice capo ufficio comando del Gruppo carabinieri Roma, ndr) e me lo passarono. Lui mi chiese di firmare ma io rifiutai. Non mi lasciai intimidire dal grado». «Perché invece Di Sano firmò?», chiede il pm. «Perché è un tipo un po’ più ansioso – è la risposta di Colicchio -: aspettava una licenza per andare a casa, in Sicilia, ma il maggiore dispose che non partisse perché doveva rimanere a disposizione per il caso Cucchi. Dopo aver firmato gli fu concessa la licenza».

Un episodio, questo, confermato dalla testimonianza del maresciallo Ciro Grimaldi, anch’egli della caserma di Tor Sapienza: «Ricordo che il 27 ottobre 2009, in occasione della visita quadrimestrale del comandante in Stazione, il collega Colicchio era arrabbiatissimo e, andandosene, ebbe con me un breve sfogo. Mi disse “mi volevano fare cambiare l’annotazione, ma li ho mandati aff…”». Quella mattina, riferisce il luogotenente Colombo Labriola (interrogato ieri davanti alla Corte per oltre cinque ore), «Soligo convocò me, Colicchio e Di Sano. A me disse che le note erano troppo particolareggiate e ridondanti e quindi disse che dovevano essere modificate». Soligo comunque inviò per mail le due note al colonnello Cavallo, e «la risposta mi arrivò dopo un’ora. C’era scritto: “Meglio così”, e nell’allegato c’erano le due annotazioni modificate che dovevano sostituire quelle precedenti». Una mail che Colombo fece visionare al Nucleo investigativo quando, il 5 novembre 2015, si presentò in caserma chiedendo di vedere tutti gli atti riguardanti Cucchi. Ma «il comandante del nucleo investivativo non la acquisì».

Colombo Labriola e Colicchio hanno raccontato anche di aver partecipato alla riunione al vertice presso il comando provinciale di Roma che si tenne la mattina del 30 ottobre 2009, appena pochi giorni dopo questi avvenimenti. Eppure, durante quella riunione che il comandante di Tor Sapienza definisce «simile a quelle degli alcolisti anonimi nelle modalità, perché ognuno a turno si alzava e diceva quale ruolo aveva avuto nella vicenda Cucchi», «nessuno – riferisce al manifesto l’appuntato Gianluca Colicchio – fece cenno alla correzione di quelle annotazioni». Come è ovvio, se è vero che nessuno in quell’occasione fece minimamente cenno al pestaggio. Una riunione mai verbalizzata.

«DA UNA PARTE c’erano i vertici dell’Arma che ponevano le domande, il generale Vittorio Tomasone e il colonnello Alessandro Casarsa (oggi a capo dei corazzieri del Quirinale, ndr) – racconta Colombo Labriola – e dall’altra io, Colicchio, Di Sano, il maresciallo Roberto Mandolini (allora comandante della stazione Appia, attualmente imputato nel processo con l’accusa di falso, ndr) e tre o quattro carabinieri della caserma Appia. Quando è stato il turno di Colicchio, il generale Tomasone si è complimentato perché aveva chiamato il 118. Il generale invece rimproverò Mandolini perché uno dei suoi carabinieri non riusciva a spiegarsi bene, e Tomasone gli fece notare che se non riusciva ad essere chiaro davanti al suo generale chissà cosa avrebbe potuto fare davanti all’autorità giudiziaria. Disse proprio così».