«Il giudice penale, ed è esattamente quello che i miei giudici hanno fatto anche questa volta, deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali ed in caso contrario, quando la responsabilità non è provata “oltre ogni ragionevole dubbio”, deve assolvere. Questo è il suo compito, per evitare di aggiungere orrore ad obbrobrio e far seguire ad una morte ingiusta la condanna di persone di cui non si ritiene provata la responsabilità». Il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani, intervene direttamente contro la «gogna mediatica» a cui sarebbero stati sottoposti i suoi colleghi e difende così – in una lettera inviata a La Stampa, in risposta alla rubrica di Massimo Gramellini – la sentenza d’Appello di venerdì scorso che ha assolto per insufficienza di prove tutti gli imputati nel processo per la morte, da detenuto, di Stefano Cucchi. «Dall’assoluzione non consegue che “Cucchi si sarebbe ucciso da solo”», scrive il magistrato correggendo il giornalista. Una tesi che però rischia di farsi largo in alcuni sindacati di polizia – penitenziaria e non – che da due giorni si sfidano e si rincorrono sul terreno del corporativismo, con esternazioni a difesa dei colleghi dai toni marcatamente vendicativi.

Ma la sentenza che assolve i tre agenti (come i sei medici e i tre infermieri) perché, come dice lo stesso Panzani, «non si ritiene provata la responsabilità» individuale degli imputati, fa tirare un sospiro di sollievo anche al reggente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano. Pur comprendendo «il dramma dei familiari» e «l’amarezza per la sentenza», Pagano esprime «soddisfazione per l’assoluzione del nostro personale, pensando all’angoscia vissuta da loro, e dai loro congiunti, per un’accusa così grave e così infamante». Una sentenza che «scioglie un peso assai gravoso da sopportare per un Corpo di Polizia che opera quotidianamente per affermare i principi di legalità in una realtà difficile e pericolosa quale è quella del carcere».

Eppure il problema resta. «Stefano Cucchi era un ragazzo sano, nel giro di sette giorni, dopo essere stato arrestato per le leggi proibizioniste sulle sostanze stupefacenti, lo Stato italiano lo ha restituito morto. Da ragazzo sano a un morto», riassume efficacemente la segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, pasionaria del garantismo e grande sostenitrice delle lotte della polizia penitenziaria. «Perché è morto Stefano Cucchi? Se lo chieda lo Stato italiano. È una vergogna che non ci sia ancora il reato di tortura», conclude Bernardini intercettata a Chianciano dove si svolge il XIII congresso del suo partito.

Sull’introduzione del reato di tortura e del codice identificativo per gli agenti, insiste anche il Movimento 5 Stelle. «È sulla legge che bisogna intervenire – scrive il senatore Vito Crimi, a proposito della sentenza Cucchi – Alle forze dell’ordine non abbiamo mai fatto mancare il nostro sostegno, e certo non verrà meno oggi, né domani». Ma, aggiunge Crimi, il Parlamento «può e deve fare». Per esempio anche «aumentando la formazione degli agenti per la gestione delle emergenze, e delle situazioni critiche», o introducendo «protocolli di gestione dei fermati che non consentano a mele marce isolate di rovinare vite umane».

Di Stefano Cucchi però – del simbolo che può diventare nell’ambito di una lotta per la democratizzazione delle forze dell’ordine e dello Stato – non a caso hanno paura alcuni sindacati di polizia.

«Mi devono uccidere per fermarmi», promette Ilaria Cucchi. Ieri, il giorno dopo della sentenza tanto inaspettata, «mi sono svegliata – dice – con l’idea che in realtà abbiamo vinto. L’assoluzione per insufficienza di prove non è il fallimento mio o del mio avvocato, ma il fallimento della Procura di Roma. Non ce l’ho con i giudici di appello ma adesso da cittadina comune mi aspetto il passo successivo e cioè ulteriori indagini, cosa che chiederò al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone per assicurare alla giustizia i colpevoli della morte di mio fratello, perché due sentenze hanno riconosciuto il pestaggio e lo Stato italiano non può permettersi di giocare allo schiaffo del soldato».