E dunque avevano ragione Ilaria Rita e Giovanni Cucchi a chiedere nuove e più rigorose indagini sulla morte di Stefano. Innanzitutto per l’esistenza di un dato enorme che più che taciuto – perché tacerlo sarebbe stato impossibile – è stato quasi completamente rimosso: ed è il fatto che ben due sentenze hanno affermato che Stefano Cucchi ha subito violenze e abusi, pur senza poter individuare i responsabili, ma appunto avendo accertato che violenze e abusi ci sono stati, inequivocabilmente.

Lo scoramento e la frustrazione suscitati da quei verdetti, e derivanti tanto dalla vista delle foto del corpo straziato di Stefano (non è necessario essere un medico legale per spiegarsi cosa gli sia accaduto) quanto dalle parole di impotenza scritte dai giudici (insufficienza di prove, impossibile accertare oltre ragionevole dubbio i responsabili delle violenze), non possono essere facilmente cancellati.

Nonostante questo, oggi abbiamo almeno due elementi sui quali riflettere. Il primo, è che l’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi offre una conferma importante: concorda nel dire che non si è fatto abbastanza e quel che si è fatto non si è fatto bene, e afferma la necessità di continuare a indagare. Sia chiaro: non è ancora una svolta decisiva, ma è un passo avanti.

La seconda evidenza è che oggi si indaga all’interno di un altro corpo dello Stato. Stefano Cucchi, nei suoi sei giorni di detenzione, ha compiuto quella che noi abbiamo ribattezzato una vera e propria via Crucis: ha attraversato una lunga serie di luoghi istituzionali, incontrando uomini in divisa, medici e infermieri, operatori e volontari. È stato portato due volte nella caserma Appia, in quella di Tor Sapienza, nelle celle di sicurezza del tribunale di Piazzale Clodio e poi nell’ambulatorio, nel carcere di Regina Coeli, nell’ospedale Fate Bene Fratelli, poi nuovamente in carcere, questa volta in infermeria, e infine nel reparto detentivo dell’Ospedale Sandro Pertini. Molte tappe, che hanno rappresentato il suo calvario.

Sappiamo le condizioni in cui Stefano Cucchi ha cominciato questo percorso: in salute, dopo aver lavorato tutto il giorno ed essere andato in palestra. Sappiamo anche come questo percorso sia finito: in un letto d’ospedale, cadavere da ore senza che nessuno se ne fosse accorto, con molti chili in meno attaccati alle ossa e il ventre gonfio di urina per via di un catetere posizionato male. Nel corso di questa agonia, molte persone hanno permesso che quell’ingranaggio, con una incredibile e colpevole inerzia, girasse fino a far sì che Stefano si “spegnesse” (così in un atto ufficiale). E ancora, fuori dall’ospedale, un medico rivolto a Rita Cucchi: “Signora, suo figlio si è spento”.

Ed ecco perché è tanto importante apprendere che la procura di Roma ha deciso di indagare tra i carabinieri perché, di quei molti passaggi, questo è stato l’unico a essere ignorato. Si è realizzata una sorta di cecità selettiva, grazie alla quale si è ostinatamente deciso, per anni, che quella parte della storia non meritasse di essere indagata. Chiedere di valutare la posizione di alcuni carabinieri non significa “avercela con i Carabinieri” (e non che non ve ne sia qualche ragione).

Ma purtroppo, finora, ha prevalso il pregiudizio esattamente speculare, quello prontamente e fieramente proclamato dall’allora ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che qualche giorno dopo la morte di Cucchi dichiarava: “Non sono in grado di accertare cosa sia successo ma di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in questa occasione”. Che Dio lo perdoni.