«Dieci anni fa, esattamente a quest’ora, anche Stefano era in un’aula di Tribunale. Dove moriva di giustizia». Ilaria Cucchi lo scrive su Fb mentre assiste nell’aula bunker di Rebibbia ad una nuova udienza del processo bis per la morte del fratello, arrestato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 e morto il 22 ottobre all’ospedale Pertini. «Dieci anni in cui il processo è stato volutamente complicato da una sottile attività di depistaggio», hanno ricordato ieri nelle loro arringhe gli avvocati di parte civile, tra i quali anche quelli dei tre agenti di polizia penitenziaria (Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici) ingiustamente accusati e poi assolti.

Alla vigilia di due sentenze molto importanti (il 14 novembre è prevista la sentenza del processo bis per omicidio preterintenzionale ai cinque carabinieri, e quella dell’appello ai cinque medici del Pertini per omicidio colposo) e dell’inizio del processo per depistaggio ad altri otto carabinieri (il 12 novembre) l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, si è detto preoccupato «sul rischio dei depistaggi, che sono iniziati nel 2009, sono continuati nel 2015 e anche nel 2018. E noi temiamo che continuino ancora. C’è il concreto rischio che ne possano emergere altri recenti».

Depistaggi che sono ancorati a «perizie medico legali in cui si diceva che Stefano fosse malato di suo o morto per epilessia o inanizione. Una cosa che potrebbe svincolare la morte di Stefano da quell’odioso pestaggio», spiega ancora l’avvocato Anselmo affermando che il processo ai medici «si regge su queste perizie».

In attesa di conoscere la verità processuale sulla morte del giovane, tra pochi giorni la commissione toponomastica di Roma si esprimerà sulla richiesta di intitolare una via o una piazza a Stefano Cucchi avanzata nel 2014 dall’allora capogruppo di Sel, Gianluca Peciola.