Hanno avuto ragione Ilaria Cucchi (con Fabio Anselmo) e Andrea Franzoso ad intitolare il loro libro, appena dato alle stampe per Fabbri editore, «Stefano, una lezione di giustizia». Perché tutta la vicenda di Stefano Cucchi – dal suo arresto del 15 ottobre 2009, alla sua morte, avvenuta una settimana dopo nell’ospedale Pertini di Roma, fino al processo bis d’Appello che si è concluso ieri con la conferma della condanna dei carabinieri responsabili del pestaggio e della conseguente morte del giovane geometra romano (mentre è ancora in corso il processo ter per il depistaggio messo in atto in tutti questi lunghi anni) – è un compendio di violazioni di norme e diritti. E una lezione di educazione civica che andrebbe portata nelle scuole.

DOPO CINQUE ORE di camera di consiglio, la Corte d’Assise d’Appello ha inasprito le pene rispetto al primo grado di giudizio, condannando a 13 anni di carcere (anziché 12) i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, ritenuti colpevoli di omicidio preterintenzionale perché la notte che lo arrestarono, intervenuti in borghese durante l’operazione, pestarono Cucchi fino a spezzargli due vertebre (S4 e L3). Anche per il maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante della stazione Appia, è stata aumentata la pena: 4 anni (anziché 3 anni e 8 mesi) per falso, con interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Stesso reato riconosciuto al carabiniere Francesco Tedesco, il super testimone assolto dall’accusa di omicidio preterintenzionale ma per il quale è stata confermata la condanna a due anni e sei mesi di reclusione. Per tutti sono state escluse le attenuanti generiche.

IN AULA, IERI, ad ascoltare la condanna non erano presenti i genitori del ragazzo ucciso, Rita Calore e Giovanni Cucchi. Il loro fisico non ha retto: «È il caro prezzo che hanno pagato in questi anni», ha spiegato la sorella Ilaria. «La mamma di Stefano ha pianto non appena ha saputo della sentenza», riferisce il loro avvocato, Stefano Maccioni, che l’ha raggiunta telefonicamente nella loro casa, a Torpignattara. Fabio Anselmo, il legale e compagno di Ilaria ringrazia coloro che hanno interrotto quello che sembrava un inesorabile percorso di malagiustizia: «Il nostro pensiero – dice – va ai procuratori Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Giovanni Musarò. Dopo tante umiliazioni è per merito loro che siamo qui. La giustizia funziona con magistrati seri, capaci e onesti. Non servono riforme».

DI TUTT’ALTRO AVVISO naturalmente i difensori dei condannati: «La nostra speranza è ora il giudice delle leggi, la Cassazione, ci rivedremo lì», promette l’avvocata Maria Lampitella che difende il carabiniere D’Alessandro. Mentre il suo collega Giosuè Bruno Naso, legale di Mandolini, mantiene stranamente un basso profilo: «Prima di commentare una sentenza bisogna leggere le motivazioni – dichiara – vedremo su quali basi sono state escluse le attenuanti generiche nei confronti dei carabinieri imputati».

EPPURE DOPO DODICI ANNI, malgrado questa sentenza, rimane l’amaro in bocca. «In questa storia abbiamo perso tutti, nessuno ha fatto una bella figura», aveva detto il pg Roberto Cavallone durante la sua requisitoria, il 15 gennaio scorso. «Stefano Cucchi quel giorno doveva andare in ospedale e non in carcere – aveva aggiunto – Credo che nel nostro lavoro serva più attenzione alle persone piuttosto che alle carte che abbiamo davanti. Dietro le carte c’è la vita delle persone. Quanta violenza da parte dello Stato siamo disposti a nascondere ai nostri occhi senza farci problemi di coscienza? Quanto è giustificabile l’uso della forza in certe condizioni? Noi dobbiamo essere diversi, noi siamo addestrati a resistere alle provocazioni, alle situazioni di rischio», aveva concluso ricordando molte altre vittime della violenza “in divisa” e chiedendo le pene che ieri la Corte presieduta dal giudice Flavio Monteleone ha comminato.

UNA SENTENZA CHE in ogni caso «alimenta la speranza di giustizia per altri casi simili», come ha detto ieri Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, il 18enne ferrarese morto nel 2005 durante un controllo di polizia. Stesso mood di Guido Magherini, padre di Riccardo, stroncato nel 2004 da un infarto a 39 anni durante un fermo a Firenze, e di Giuliano Giuliani, padre di Carlo, ucciso durante gli scontri del G8 di Genova nel 2001. «È un inizio: ora chi sbaglia è giusto che paghi», è invece il commento di Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto a Varese nel 2008 dopo esser stato fermato ubriaco da due carabinieri. «Tuttavia – ha aggiunto il loro legale, l’avv.Fabio Ambrosetti – non gioisco mai per le condanne, perché sono contrario al carcere come strumento punitivo. Ancora meno quando si tratta di carabinieri, perché rappresenta il fallimento dello Stato».