A non giocare un ruolo di prim’ordine è, manco a dirlo, la stampa. Dove? Ovunque, verrebbe da scrivere. Taciuta, involgarita, depredata del suo significato, la comunità scrivacchina se ne sta in disparte, tranne rari e sostenuti casi. Nella fattispecie, in questo articolo, facciamo riferimento a un mondo piccolo piccolo e chiuso chiuso, quasi claustrofobico, che è quello dell’enogastronomia. Potrebbe sembrare strana questa cosa, dall’esterno, poiché siamo subissati da notizie e notiziette sull’argomento. Ma tant’è. Tutto, o almeno tanto, bisogna ricordarlo, nacque proprio qui. Su queste pagine. È nato su Il Manifesto lo storico inserto del Gambero Rosso, dalla mente e dalla penna di un uomo che ci ha lasciati la scorsa estate, Stefano Bonilli. Il Gambero nacque e se ne andò, creando qualcosa di mai esistito prima, da cui hanno tratto linfa tutti i discorsi attuali, da quelli più interessanti e costruttivi a quelli più inutili e insignificanti. Ego spropositati si sono generati da allora. Ma anche barlumi di luce. Perché se c’è un aggettivo che ricorre sempre di più e a buona veduta accanto al termine cibo è: antropologico. Bonilli alias Papero Giallo, questo il suo nick du Twitter, ci ha lasciato un soffio di tempo prima di realizzare l’ultimo progetto legato a quel mondo cibo in cui credeva molto. App.etite è stato “una riunione nella quale discutere con chi è impegnato in iniziative nuove in Italia e all’estero e dove ascoltare chi ha già dato vita a progetti innovativi non solo nel mondo del food” questa aveva scritto in un articolo in cui lanciava il progetto lo scorso aprile. Non ce l’ha fatta. A portare avanti il tutto ci hanno pensato i suoi “discepoli”, la giornalista Elisia Menduni suo braccio destro operativo nella testata on line Gazzetta Gastronomica e Marco Bolasco, che fu il suo pupillo, cui diede in mano la Guida del Gambero in un periodo buio e attuale direttore scientifico dell’area enogastronomia di Giunti passando dalla direzione editoriale di Slow Food. Operativo da subito anche Massimo Bergami, dean della Bologna Business School, sede dell’incontro. Cosa volesse fare davvero Bonilli non lo si può ovviamente sapere per certo però “nell’ultimo periodo gli mancava l’aria- racconta Bolasco- non ne poteva più di questo mondo cui aveva contribuito in maniera enorme, non trovava più interlocutori lucidi. Era sempre alla ricerca del nuovo, sia che si trattasse di un giovane da ascoltare sia che si trattasse di un concetto, di un punto di vista. Da questo anche la sua passione, a volte abbagliante, per la rete. Quindi, per dirla alla Buffalo Bill o si scartava di lato oppure si doveva cambiare tema. Sarebbe stato capace di farlo. Era un giornalista puro. In qualche modo sentiva l’esigenza di rifondare questo mondo spingendolo avanti. La sua, quella del Gambero, è stata una vera e propria scuola laica sul cibo, l’unica. Individuò in esso un linguaggio ed erano i tempi da La Messa è finita. Trascino intellettuali ancorati ai loro universi colti e raffinati verso il mondo della cultura materiale. Ridando parola e dignità a gestualità e concetti perduti”. È stato detto tanto in questo congresso e, al contempo, niente. Merito e colpa anche, come si diceva all’inizio, di un ruolo completamente svuotato quale quello di una stampa che non è più in grado di rinnovarsi e di dire la sua in modo,appunto, laico e libero. Contributi ce ne sono stati tanti e, in questa sede, ci occupiamo di quelli relativi alla modalità tv del cibo, quella più criticata ma allo stesso tempo più desiderata da tutti i roteanti attorno al settore. Si sa, sempre si brama ciò che non si possiede.

Seduttiva e sirena come sempre, la televisione entra nelle teste e nelle viscere dei suoi adepti, atraendoli di volta in volta con l’argomento che di lì a poco diventerà il loro più caro. “Come se non ci fosse un domani” scrivono molte blogger parlando del loro argomento preferito, il food, ed è esattamente così che l’ha presa il meccanismo televisivo: programmi di cibo come se non ci fosse un domani. A raffica. Guardatissimi, davanti allo schermo si opta per poco altro. Differenze in realtà ce ne sono molte, come ci spiega Enrico Menduni professore ordinario di cinema, fotografia e televisione all’università di Roma Tre. “anche la televisione è in sé nutrimento. Al punto che spesso creiamo confusione tra i cibi che realmente ingeriamo e quelli che, invece, assumiamo in forma di immagini in quantità a dir poco bulimiche. Un tempo la mission della tv era quella di educare alla modernità, insegnare, cioè, a consumare. Spazzare via il salsamentario e inserirci in un mondo di marche e packaging. Oggi le strade si dividono in due, da una parte c’è una tv generalista, quella che guardiamo all’ora di pranzo e cena, per intenderci, con la bottiglia d’acqua davanti a fare da barriera. In essa il cibo si somministra per l’appunto all’ora dei pasti a mò di conduttrici sotto forma di massaie che insegnano a eventuali giovani generazioni che la famiglia può essere tenuta insieme da un cibo ben cucinato. Una in forma dieci minuti e via, l’altra in una più patemica: se lo fai bene non ti lascerà per un’altra! Sprofondiamo in archetipi familiaristici arcaici. Ma la tv generalista è oggi tanto più arcaica perché a guardarla sono i vecchi, oppure i poveri, che non hanno i soldi né per le Maldive, né per il satellite. E qui subentra la seconda strada, dove troviamo la nicchia, ed è in essa che si scatena la cucina! Il cibo ha oggi raggiunto la sua maturità d’ibridazione, con gli altri generi appetibili, primo fra tutti il talent e la competizione. Lasciandosi andare a toni forti, spesso al trash, all’unto e al bisunto. E quando arrivi lì, si sa, un po’ è perche hai finito la benzina”.

Qualche dritta ulteriore la fornisce Fabrizio Ievolella, direttore generale dei contenuti di Magnolia, preso d’assalto App.etite. Per lui è di nuovo antropologico l’aggettivo da utilizzare. Sostanzialmente, visto che non se ne occupano gli esseri umani a prendere contatto con le loro cucine e rispettivi saperi, ci pensa la televisione. “La tv è uno strumento centrale per raccontare il cibo e le sue storie. Nello specifico, due programmi in particolare Master Chef e Bake Off Italia, sono due successi assoluti. Il cibo è partito dal tutorial, dal come si fa una ricetta, ed è arrivato al talent, esattamente come tutti gli altri generi di intrattenimento, dalla musica al ballo etc. è il sogno delle persone il punto di partenza, la loro aspirazione, la possibilità che mostri loro di compiere una immensa scalata sociale utilizzando il talento. Il talent fornisce allo spettatore un linguaggio specifico, proprio di una determinata categoria, rendendolo disponibile e alla portata di tutti. Pensiamo al verbo impiattare, prima quasi non esisteva, ora lo usano tutti. Il concetto arriva allo spettatore che lo fa proprio, acquisisce un metro di giudizio personale e, alla fine, si sente una persona migliore”. Potrà forse finire il genere talent, iper sfruttato e iper spremuto, ma non sarà il cibo ad abbandonarci “La cucina non può esaurirsi come genere- continua Ievolella- proprio perché è un genere. Ed è talmente radicato, che semplicemente porterà dietro e dentro di sé dei nuovi linguaggi per trattare un tema che è antropologicamente troppo rilevante per essere messo da parte”.

E chissà, forse si arriverà o sarebbe meglio dire si tornerà a parlarne in maniera più umana. Senza affibbiare ruoli, francamente, spesso ridicoli a personaggi che potrebbero e sicuramente sono più interessanti agli occhi di tutti? Forse lo spettatore, povero o ricco, può considerarsi pronto per divertirsi e anche apprendere senza la pantomima del cattivone bastardo che tale deve mostrarsi per convincerti che è un grande professionista? Certo gli autori televisivi lo sanno meglio di noi e quando sarà il momento, ce ne accorgeremo perché lo schermo se ne sarà fatto una ragione prima. Questo vale per molti. Non per tutti. Fortunatamente! Sicuro non per Massimo Bottura, osannatissimo chef di casa nostra. Proprio lui, ad App.etite, dal fondo della sala, è insorto contro le “bugie” della food-televisione. “La tv è importante- dice- quando ti lascia raccontare la verità delle cose che accadono”. Lui ha rifiutato un po’ tutti quelli che sono andati a cercarlo, anche se è il primo ad ammettere che le puntatine a Master Chef Uk o Australia gli hanno fruttato una pubblicità giga. Però “la cosa fondamentale è solo una,cioè andare in profondità delle proprie passioni, perché non ci sono altre strade. Da lì parte tutto. Io vivo l’arte, la musica, nella mia quotidianità, così come accade con la cucina. Non c’è un’ora X in cui stacco e divento un creativo! Sarebbe ridicolo. Quello che prepariamo alla Francescana (il suo ristorante stellato a Modena) sono bocconi delle nostre passioni, che ti raccontano di un quadro di Hirst o di una musica straordinaria. La gente con cultura capisce questa cosa ed è il motivo per cui noi stiamo in piedi e abbiamo il ristorante pieno a pranzo e cena. Non esistono cucine infernali. Certo, in Italia, il livello di consapevolezza è molto più basso, ci sono troppe mentalità superficiali, che hanno ancora bisogno di certi concetti sfalsati”. Non c’è scampo. Neppure qui.