Comincerei dall’epilogo, ma di epilogo non si dovrebbe parlare, quando ci si accosta a una figura impervia quale quella di Stefano Agosti, che lascerà testi fra i più rilevanti della critica letteraria, dalla seconda metà del secolo scorso fino agli anni più recenti del nuovo: la sua ultima conferenza, lo scorso settembre, presso la stracolma Biblioteca Nazionale Braidense, era su Pasolini: parola del ’900. Agosti prese la parola e nuovamente, ultraottantenne, affondò le sue lame esegetiche nel corpo del testo, nel corpo di Pasolini. Appena un incipit, una manciata di parole, e uno dei più affilati interpreti della legge del discorso letterario mostrò tendini e giunture nel corpo del dire: «morte come tema e struttura».

NÉ NELL’UOMO, né nello studioso Agosti il dire era mera, per quanto raffinata, trasmissione di informazioni: il linguaggio è il primo luogo. Lo legò infatti ad Andrea Zanzotto una profonda amicizia scaturita anche dalla comune visione del linguaggio non solo come esperienza del mondo, ma come dispositivo propriamente costitutivo della stessa consistenza del soggetto. Anche in questo risiede l’eccezionalità del suo apporto nel panorama contemporaneo della critica e la sua elaborazione di nuovi paradigmi: la citazione, in Stefano Agosti, si sottrae alla rassicurante linearità del dicibile e del commentabile; la parola morte, nella sua voce svigorita, si fa pre-grammaticale e incarnata.

Stefano Agosti

Del resto Stefano Agosti non può essere considerato, nonostante i riconoscimenti ufficiali, soltanto un professore universitario impegnato in studi e ricerche sulla letteratura francese e su quella italiana, soprattutto moderna e contemporanea. È stato qualcosa di più e qualcosa di diverso. Approdato al mondo accademico solo attorno agli anni ‘70, dopo una laurea all’Università di Bologna con Francesco Flora e un incarico presso la Rizzoli, propiziato dallo stesso Zanzotto, Agosti ha portato negli studi letterari che ancora risentivano dell’ipoteca crociana, la forza ribelle che, poco dopo la metà del secolo, aveva in Francia il suo fuoco teorico principale. Dopo l’incontro con Cesare Segre e Maria Corti, e un primo, illuminante studio dedicato a Mallarmé (Il cigno di Mallarmé, 1969), poeta della sua vita nonché «punto più alto raggiunto dalla speculazione umana attorno al linguaggio» – al quale dedicò altri importanti studi culminati nel Fauno di Mallarmé, Feltrinelli, 1991 -, sarebbe apparsa in maniera sempre più chiara la centralità delle cosiddette «scienze umane», oltre alla linguistica, alla semiologia e alla psicoanalisi, recepita attraverso Lacan, nell’elaborazione di modelli teorici in cui la ricerca di strutture viene intrapresa solo per poterne mostrare i punti di fuga, gli scarti, gli inassimilabili residui.

Fedele al famoso principio di Roman Jakobson, secondo cui «la funzione poetica proietta il principio di equivalenza dall’asse della selezione sull’asse della combinazione», Agosti ha instancabilmente cercato negli autori che ha studiato – Petrarca, Baudelaire, Proust, Rimbaud, Pasolini e Zanzotto, di cui ha curato un Meridiano nel 1999 preceduto da una bellissima introduzione -, il gioco grammaticale e sintattico non più condizionato dalle regole del discorso, ma capace di produrre regole proprie, che permettono al linguaggio di fondare mondi impensati, di esprimere senso tramite una «semanticità non articolata», escludendo o quanto meno sospendendo momentaneamente il rapporto con il significato: si pensi allo studio formale delle allitterazioni, della rima, del ritmo o allo studio semantico delle figure di trasposizione, prima di tutto la metafora. Per Mallarmé, come per Zanzotto o per Proust, si tratta, infatti, sempre di restituire al linguaggio la sua funzione di ordinamento simbolico del mondo, nella quale, e qui è più manifesto il portato psicoanalitico, il soggetto non è in una posizione di dominio, che attiene all’ordine del significato, ma di «ascolto», vale a dire capace di lasciarsi lavorare da un linguaggio che è e non può non essere sovradeterminato, sempre in eccesso rispetto al suo stesso dire. La teoria letteraria, allora, come mostrano esemplarmente sia Il testo poetico (1972), sia, soprattutto, Critica della testualità del 1994, deve oltrepassare l’ordine del significato, alla ricerca delle fratture e delle scomposizioni che permettono al linguaggio di destrutturarsi in vista di una ristrutturazione impensabile, impossibile e, insieme, necessaria.

LA LUNGA PARTECIPAZIONE al Verri, la rivista fondata da Luciano Anceschi, mostra non soltanto la radicalità delle analisi di Agosti, ma anche la profonda apertura nei confronti di linguaggi, come quello della filosofia, che testimoniano quanto egli sia stato studioso refrattario a strettoie disciplinari o ad asettiche metodologie. Si pensi, allora, alla sua interpretazione di Maurice Blanchot: la nuova edizione de Lo spazio letterario nel 2018 per il Saggiatore è accompagnata da una nota in cui l’assenza, il vuoto dell’origine che vertebra l’esperienza di Blanchot diviene esempio dell’esperienza poetica tout court; si pensi al rapporto profondo con Jacques Derrida, a cui Agosti fu legato anche da una lunga amicizia personale, e del quale viene studiata l’incarnazione del pensiero nella scrittura. Una parola ricorre spesso negli studi di Agosti (ad esempio nel Rimbaud, 2016): «enigma». Parola difficile in quanto facilmente fraintendibile, «enigma» diviene per Agosti quasi un termine chiave per indicare non solo l’allusiva ambiguità del linguaggio, (si pensi a Gadda ossia quando il linguaggio non va in vacanza, 2016), ma, più ancora, alla funzione del critico (Il romanzo francese dell’Ottocento, 2010) che, al pari di un abile «enigmista», è chiamato a decifrare quanto nel testo poetico si dice al di là del poeta e del critico stesso: un al di là che si presentifica solo attraverso le strutture formali su cui si costruisce un testo letterario e che, come Agosti soprattutto negli ultimi anni ha cercato di dire, sottrae la lettura, cioè l’ascolto, all’interpretazione, vale a dire alla pretesa da parte del soggetto di dominare un ordine simbolico di cui proprio l’uomo è il primo effetto.

ANCORA UN FASCIO di progetti editoriali da concludere e da inaugurare occupavano la mente di Stefano Agosti e le sempre più residue forze di questi ultimi mesi, nella casa milanese, perforata da voci, volti di presenze trapassate e appartenenze evocate e trattenute o da cui farsi trattenere: una su tutte, la foto di lui bambino tra le braccia di una giovane, bellissima madre. Guardandola e guardando lo sguardo della madre sul piccolo Stefano, Jacques Derrida disse sorridendo: «da questo sguardo di madre trae origine il narcisismo» e sorridendone Agosti lo raccontava. Un decina di anni dopo quello scatto, quel bambino si sarebbe sciolto dalle braccia e dallo sguardo materno, per consistere in una ulteriore matrice: scrisse in una recente lettera privata Stefano Agosti: «dall’età di 14 anni, la poesia è divenuta la mia struttura morale».