Stefania Sandrelli non ha certo bisogno di presentazioni. Un’interprete dolce, un’icona di sensualità e sessualità che ha cavalcato – sempre in primo piano – il nostro cinema per oltre sessant’anni; ha lavorato con i più grandi autori italiani (Germi, Pietrangeli, Monicelli, Scola, Comencini, i fratelli Bertolucci) in più di 100 film, ha duettato con colleghi magnifici (Tognazzi, Mastroianni, Sordi, Gassman, Philippe Noiret, Dustin Hoffman ma anche Dominique Sanda, Liv Ullmann, Catherine Deneuve, Maria Schneider), è stata una delle prime attrici over 40 a infischiarsene di certi tabù anagrafici attuando scelte audaci (da Tinto Brass a Bigas Luna). Un po’ controcorrente all’occorrenza, un po’ svaporata ma sempre con lucida autoironia e ferma intelligenza del compromesso. L’abbiamo raggiunta in occasione dello scorso Magna Græcia Film Festival di Catanzaro, arrivato alla 19ª edizione, dove è stata protagonista di un incontro col pubblico e premiata con la Colonna d’oro alla carriera.

Stefania, che dire, ha ricevuto un numero importante di riconoscimenti alla carriera, dal David di Donatello al Globo d’oro, dal Nastro d’argento onorario al Leone d’oro di Venezia. Ed eccola in Calabria verso il successivo, a pochissimi giorni di distanza dal Premio Alassio Cinema…
Be’, anzianità di servizio (ride, ndr). Devo dire che non mi dispiace affatto, anzi mi fa onore perché dopo tanti anni era inevitabile e quindi me li godo. Questi premi alla carriera non li sento affatto funerei.
Dagli anni Ottanta, accanto alla svolta erotica, troviamo nella sua filmografia tanti ruoli dedicati all’accudimento dei figli, alla comprensione del loro mondo. Insomma, ha la maternità nel sangue.
Sì, il senso di maternità è il sentimento che prevale in me, ora ho l’autorevolezza per affermarlo (ride, ndr). Non mi risulta difficile incarnare «la mamma», è naturale. Credo comunque che alla base ci sia la mia grande curiosità per le donne in generale, possedendo in primis questa predilezione nell’essere materna. Durante le riprese di Mignon è partita, ad esempio, tutti si rivolgevano a me chiamandomi «ma’» senza mai usare il mio vero nome.

Ne «L’amore probabilmente», in un breve ma significativo cameo, Giuseppe Bertolucci la scelse per incarnare «la verità» della recitazione (Mariangela Melato e Alida Valli sono rispettivamente «la menzogna» e «l’illusione», ndr): «Cambiano i ruoli, ma volto e corpo restano miei. Tutta la verità, nient’altro che la verità, lo giuro!», dice nel film.
È chiaro che mi misuro con la mia persona, con le mie convinzioni, con quello che ritengo più autentico. Il mio lavoro è una cartina di tornasole, non dovrebbe creare false illusioni o essere troppo lontano dalla realtà, anzi dovrebbe rappresentarla appieno. Infatti, ogni volta che leggo una sceneggiatura, chiedo sempre di attenersi alla concretezza.

Lei e Catherine Spaak eravate amiche?
L’ho conosciuta ai tempi di Gino Paoli, ma non ci siamo mai frequentate. La sua scomparsa mi è dispiaciuta molto perché credo avesse ancora qualcosa da dare. Era curiosa, intelligente, conosceva bene l’universo femminile e sapeva argomentarlo. Questo mi piaceva molto di lei.

Si ricorda del suo bel ritratto, con tanto di edera che le scende sulla spalle, realizzato da Chiara Samugheo?
Come no, Chiara era bravissima! Anche lei amava molto le altre donne e forse era per questo che mi facevo fotografare volentieri dal suo obiettivo, perché la sentivo come una di famiglia.
Siamo ormai a Ferragosto e l’immagine di lei con Alberto Sordi chiusi in quell’«Ascensore» (diretto da Comencini, terzo e ultimo episodio di «Quelle strane occasioni», ndr) rivive puntualmente…
(ride, ndr) Bellissimo! Sono felicissima di aver fatto questo piccolo film che, nel tempo, si è rivelato un vero gioiellino.

Le hanno sempre chiesto i suoi film preferiti o i ruoli a cui è più legata. C’è invece un titolo o un personaggio che non l’ha soddisfatta pienamente?
La mia professione è bella perché si basa sulla collaborazione, ed è la cosa più preziosa mentre giri un film. Quindi, ecco, ho grande rispetto del lavoro altrui e, in certi, casi lascio anche un po’ correre. Però, di una cosa m’impiccio sempre, quando non è troppo tardi, ovvero il dialogo. In Italia non abbiamo dialoghisti, ma sceneggiatori che fanno parlare tutti i personaggi allo stesso modo. Ovviamente mi sono intromessa chiedendo sempre prima il permesso ai registi. Questo l’ho capito bene e presto, per fortuna. Su alcune scarse soddisfazioni, inevitabilmente, non possiamo avere né tutto cronometrato né tutto quello che desideriamo.

Nel 2009 si è cimentata nella regia con «Christine Cristina». Com’è nata questa scommessa?
Ero in una libreria mentre stavo scegliendo dei regali di Natale e vidi in vetrina una copertina con la figura di una donna che mi colpì molto, appunto Christine de Pizan, scrittrice e poetessa italo-francese di inizio ‘400. Mi piacque talmente tanto che sentii il desiderio forte di comunicarla in qualche modo, non trovando poi altre possibilità se non quella di dirigere io la storia. Anche perché in ogni attore, dopo tanto tempo, si nasconde la curiosità di stare dall’altra parte della mdp. Ho fatto di necessità virtù, rimanendone soddisfatta. Ogni tanto ci ripenso e continua a farmi un grande piacere aver diretto questo film, sono molto grata a chi mi ha permesso di poterlo realizzare. Magari, ecco, fosse uscito con qualche copia in più mi avrebbe gratificato ulteriormente. Ma, alla fine, sono una che fortunatamente si accontenta.

Cosa può anticipare su «Acqua e anice» (di Corrado Ceron, ndr), suo ultimo lavoro che verrà presentato alle Giornate degli Autori di Venezia e che uscirà nelle sale il 29 di settembre?
Il film tratta un tema delicato, seppur sviluppato con ironia. Interpreto una buffa ex star di liscio romagnolo che a un certo punto assume un’autista, la bravissima Silvia D’Amico, chiedendole sotto compenso di portarla a trovare delle amiche. Finirà la corsa in un luogo fuori dall’Italia, ma non posso dirle di più perché con la produzione abbiamo deciso di coordinarci in quanto il tema principale è un argomento socialmente urgente. Amo la vita come poche persone e credo di averlo dimostrato senza troppe chiacchiere. Ritengo però che, come per la vita, ci debba essere una dignità anche per la morte.