Stefan Zweig non era un codardo e in quel capolavoro che è Il mondo di ieri – acquario di ricordi personali, palinsesto dei destini collettivi – si mostrò spigliato nel giudicare due elefanti russi: Stalin e Dostoevskij. Condannò il primo senza mezzi termini (inevitabile per un borghese come lui, imbevuto di liberalismo, di Schuster & Löffler e di circoli viennesi), mentre del secondo celebrò il genio, ma senza rintronarsi nel timore reverenziale.

«Solo un libro che riesce a mantenere pagina dopo pagina lo stesso livello di tensione narrativa, trascinandomi col fiato sospeso fino all’ultima riga, riesce a darmi un totale godimento», scriveva. «Persino nei più celebri capolavori mi disturbano i passaggi farraginosi e ho proposto spesso agli editori il temerario progetto di ripubblicare una collana dei maestri della letteratura mondiale» – tra questi, Dostoevskij – «in una versione con tagli radicali di tutto ciò che è superfluo».
In seguito, all’amato e prolisso Dostoevskij, dedicò un’intera opera, tripudio di intuizioni e lampi così luminosi che riproporne oggi un bagliore significa far luce per comprendere meglio anche questo Viaggio in Russia (Passigli Editori, pp. 89, euro 10, a cura di Vittoria Schweitzer). «L’uomo russo vuole tutto», annotava Zweig parlando dell’autore di Delitto e castigo, «vuole sentire se stesso e la vita, ma non l’ombra di questa o il riflesso, non la realtà esteriore, ma la grande misteriosa forza elementare, la potenza cosmica, il sentimento dell’esistenza. L’uomo russo vuol sentire in sé l’eternità, l’infinito, e disfarsi di ogni cosa temporale».

È il 1928 quando Stefan Zweig viene inviato per due settimane in Urss in qualità di delegato degli scrittori austriaci per il centenario della morte di Tolstoj. Durante il viaggio compone sei reportage, istantanee di un album che si fa man mano. Infatti, in questo libro che li raccoglie tutti – uscirono per la Neue Freie Presse di Vienna –, più che scrivere Zweig sembra ragionare ad alta voce a uso e consumo del lettore, conquistando con lui la consapevolezza di ciò che descrive. Procede stratificando immagini, disponendole una dopo l’altra, verificando di continuo che reggano, su, su, su, un piano alla volta; pieno di prudenza, riferisce le impressioni così come sorgono senza mai porsi il problema di sistematizzarle in un giudizio che, peraltro, dichiara di non voler dare.

La Russia in cui sbarca è quella del 1928, la Rivoluzione d’Ottobre ha compiuto dieci anni e il Paese ha varato il primo piano quinquennale. È la Russia stremata dal comunismo di guerra, disperata ma furiosa di nuova vita. Letterariamente è la Russia di Invidia di Jurij Oleša, di Un uomo scandaloso di Kaverin, dei Racconti di Odessa di Babel’ e dell’incontenibile forza comica di Il’f e Petrov. Incontenibile anche la forza simbolica che sprigiona se, appena ne ha varcato la soglia, trasforma Zweig in Alice che cade nella buca.

Così lui ci avverte: attenzione, qui il tempo è un altro tempo, lo spazio è un altro spazio, l’orologio si sposta di un’ora, i chilometri si contano in migliaia, una gita di dodici ore è un’escursione, una conversazione di quattro ore è una chiacchierata; (la migliore introduzione mai letta, questa, a tutta l’opera di Dostoevskij.) Nel pentolone fumante della Russia, il mestolo proletario rimescola Storia ed eventi, e sarà nel popolo, «questo pilastro del nuovo mondo», che Zweig osserverà la «forza elementare della vita».

Il popolo che sopporta la fame, le code e le guerre civili, il popolo che stringe i denti e tira avanti dicendo «nitschewo», non fa niente. Mosca cade a pezzi come la Vienna del 1919, l’intonaco si sfoglia via dalle facciate, i portoni sono sbilenchi e le abitazioni mute, ma la strada rigurgita.

È questa, dunque, la Mosca che vede Zweig: fatale e scellerata di barbaro caos, in cui le cattedrali barocche fiammeggiano accanto a palazzi in calcestruzzo addossati a brutte bettole e imitazioni di ville rinascimentali. Mosca è un carosello di stili che si azzuffano tra latrine, cortili e «quaranta volte quaranta chiese», oscure di tetre iconostasi e tappezzerie opprimenti, candele che tremolano in un buio rembrandtiano saturo di fuliggine.
Un po’ Europa, un po’ Asia, un po’ Mongolia. Mosca è il luogo in cui tutto rimbomba e ipnotizza, e in cui, per la prima volta, contadini, impiegati e donne del popolo varcano le soglie dei musei perché ora «tutto è per tutti». Mosca che erige nuovi santuari come il mausoleo di Lenin, Mosca a corto di spazi che pigia cinque famiglie in un unico focolare con un solo cesso. Mosca che non risparmia nemmeno Ejzenštein, racconta Zweig, che vive in una stanza tra un letto, un catino e un angolo traboccante di libri.

Poi cessa il tumulto e Zweig abbandona Mosca. Cigolanti suoni di rotaia lungo la campagna – duecento chilometri a sud. Dopo il viaggio notturno, ecco finalmente Jasnaja Poljana, la «radura serena» dove viveva Tolstoj.
Accolto dalla figlia nella scuola del paese, lo scrittore percorre la terra grassa di un sentiero inaccessibile, ci sprofonda fino alle ginocchia accompagnato da contadini con le barbe lisce «che sembrano ritagliati dalle icone» e si ritrova al cospetto del modesto edificio di mattoni che fu la residenza del genio di Anna Karenina: letti di ferro, mobili grezzi, fotografie malconce alle pareti, un’ottomana – niente di più. Anzi, sì: la sua tomba, «la più bella del mondo», ai margini di un bosco. È immersa nel silenzio, senza una croce né un’iscrizione, solo un piccolo mucchio di terra non sorvegliato, non recintato, ombreggiato da due grossi alberi che piantò lo stesso Tolstoj, fedele alla propria infanzia e a una vecchia leggenda russa. «Ricordati», gli diceva sempre la sua balia, «dove si piantano alberi, lì ci sarà un luogo di felicità»