In una settimana determinante per la crisi istituzionale che attanaglia il Brasile, abbiamo sentito il parere di Joao Pedro Stedile, leader del Movimento Sem Terra (Mst).
Nei giorni scorsi, l’Mst, con movimenti e sindacati, si è accampato con i sacchi a pelo a Brasilia, per seguire la votazione sul processo di impeachment alla presidente Rousseff: ieri notte la commissione parlamentare, a maggioranza, ha dato il via libera.

La polizia militare ha dato l’assalto a un accampamento dell’Mst a Quedas de Iguaçu, nello Stato del Paraná, ha ucciso due contadini e ne ha feriti altri sei. Che succede in questa regione governata dall’opposizione?
Quel che è accaduto in Paraná è stata la conseguenza di un’alleanza dell’amministrazione locale, di destra, che ha nominato un nuovo segretario di governo, il signor Valdir Rossoni, già deputato del Psdb, da sempre finanziato dall’impresa forestale Araupel: l’accaparratrice delle terre pubbliche ora occupate dall’Mst. Quindi la sua nomina è stata un tentativo di «risolvere» il problema e di farlo attraverso la violenza. Però non hanno calcolato che lì si sono accampate oltre 3.000 famiglie, e che tutta la regione ci appoggia: perché l’impresa si dedica solo alla monocultura del pinus in una regione che è molto fertile. E così, anche se purtroppo abbiamo perso due compagni, la lotta continua più forte e il governo locale è indebolito. Quello centrale ha designato un responsabile federale per le indagini e ha dispiegato un plotone di polizia nazionale, per evitare che la polizia locale, insieme ai pistoleros dell’impresa continuino con le provocazioni. Il 9 aprile, al funerale c’erano 10.000 persone nella città di Quedas de Iguazu.

In tutte le regioni di frontiera dell’America latina – Venezuela, Colombia, Argentina – ci sono mafie che fanno gli interessi delle destre. In questo momento difficile ci sono piani paramilitari per destabilizzare così anche in Brasile?
Da noi, non credo. Queste mafie si dedicano agli affari e non amano la confusione. In tutta l’America latina, c’è però uno scenario di crisi generalizzata. Durante il periodo neoliberista degli anni ’90, nell’era Reagan-Thatcher, tutti i governi latinoamericani erano subalterni agli Usa. Poi quel modello è stato messo in questione da due progetti: quello neosviluppista – prodotto di un patto tra i lavoratori e settori della borghesia, soprattutto in Brasile, Argentina, Uruguay – e il progetto dell’Alba, guidato da Chavez, e basato sulla necessità di una visione nazionale, antimperialista e anti-neoliberista. Si poteva proseguire su questa linea antimperialista solo costruendo un’alleanza basata sull’integrazione continentale, non solo di governi, ma dell’economia, dell’energia e soprattutto un’integrazione popolare. Dall’elezione di Chavez, nel ’98 al 2013, si sono scontrati tre progetti: neoliberismo, neosviluppismo e Alba. A ogni elezione, in America latina, questi tre progetti presentavano propri candidati nei singoli paesi e il rapporto di forze si modificava: a volte il neosviluppismo si è alleato con il neoliberismo, per esempio sul tema dell’etanolo, altre con l’Alba, e da lì si è creato lo scenario dell’Unasur e della Celac. Ma in questi ultimi anni, tutti e tre i progetti sono entrati in crisi. Il neoliberismo è in crisi.

Nonostante la crescita ostentata dall’Fmi, il Messico è praticamente uno stato a pezzi… Il neosviluppismo è in crisi, sia qui in Brasile che in Argentina e in Uruguay. E anche l’Alba è entrata in crisi perché ruotava intorno alla maggior ricchezza del Venezuela, il petrolio. Chavez, nella sua saggezza, lo utilizzava come un bene strategico a favore di tutti e ora, con la caduta del prezzo del barile, questo non può più essere fatto. E anche l’Alba ha il fiato corto. In questo scenario, è naturale che, in ciascun paese, quando ci sono elezioni, le forze tentino di travolgere il governo che rappresenta quel progetto. Succede in Argentina, in Brasile, in Venezuela, ma anche nei paesi neoliberisti. Non ci sono bacchette magiche. Ci vogliono anni, ed è necessario che le classi popolari di ogni paese ricostruiscano un progetto adatto. Di certo, quando discuteremo il nostro progetto per il futuro dovremo considerare prioritario la democratizzazione dei mezzi di comunicazione e in particolare di quel grande strumento di massa che è la televisione. Da noi, è gestita dal monopolio di tre gruppi che si accordano fra loro. E la televisione, specialmente la Globo, ha connessioni dirette con gli Usa e con la destra latinoamericana attraverso l’Istituto Millennium, che è in realtà uno spazio di articolazione politica. Il modo in cui si trattano le notizie in Messico, Cile, Argentina, è lo stesso della Globo: stigmatizzare i poveri e la sinistra, mettere in ridicolo leader popolari come Lula, Fidel Castro, Chavez o Maduro. Per contro, noi dobbiamo sviluppare una vera guerriglia comunicativa, con tutti i mezzi culturali per una nuova battaglia delle idee e per nuove simbologie.

Che succede con il disastro ambientale di Mina Gerais, il più grande nella storia del paese? Sembra che le indagini che avrebbero potuto portare in carcere alcuni alti responsabili siano state sospese per un conflitto tra i giudici federali e quelli locali: dov’è finita la «voglia di far pulizia» che certa magistratura ostenta con la tangentopoli brasiliana e con le denunce a Rousseff e a Lula? È una vergogna. Siccome l’impresa Vale, responsabile del crimine e le sue consociate sono grandi finanziatrici dei politici, il loro processo è praticamente paralizzato. A parte le multe di migliaia di milioni di reales imposte loro dal Pubblico ministero, fino a ora non è stato fatto nulla. L’impresa sta solo cercando di ricollocare le 300 famiglie sfollate, e convincere così l’opinione pubblica della città, che dipende dalla miniera, a dare il suo appoggio alla riapertura. La miniera, intanto, continua a diffondere tutta quella spazzatura chimica nel fiume, che è già morto. Stiamo organizzando diverse mobilitazioni di massa, per vedere se i politici e i poteri giudiziari assumono un’attitudine più decisa.

Questa è una settimana determinante per il processo d’impeachment alla presidente Dilma Rousseff. E poi ci sono le accuse a Lula da Silva, ma anche i problemi giuridici del vicepresidente Michel Temer, che si è dimesso dal Pmdb e che dovrebbe sostituire la presidente in caso di sospensione dall’incarico. Quale esito potrà avere questa crisi politica?
A seguire il voto di impeachment, c’è la plenaria della Camera, dal 15 al 17, con dibattito e votazione. Se il governo e le forze popolari perdono, assume il comando la destra più neoliberista che c’è, formata dal Pmsdb, dal Psdb e dal peggio che abbiamo in politica. Temer e Cunha taglierebbero i diritti, privatizzerebbero il petrolio del pre-sal, le idroelettriche. Sarebbe il governo dei più corrotti. E questo può portare a una nuova ondata di proteste, perché la maggioranza delle persone che ha manifestato, compreso chi è sceso in piazza contro Dilma, è contro la corruzione che questi signori incarnano. Secondo un’indagine, i politici hanno una credibilità dello 0,01%. Anche la destra non è unita ed è toccata dalla crisi. In un paese di forti disuguaglianze, ereditate dal periodo coloniale e dallo schiavismo, l’1% della borghesia più ricca controlla il 58% dell’economia. C’è un potere economico, esercitato dalle imprese, dagli imprenditori più reazionari.

E abbiamo un 8% di piccola borghesia incarognita nei confronti dei poveri dai quali vuole sempre distinguersi. Siamo l’unico paese al mondo che ha ancora un ascensore diverso per i domestici e i cani. Un odio latente che covava nelle classi medie, è stato sdoganato dai grandi media. Un odio che è anche razzista, perché la maggioranza dei poveri, da noi, è composta da negri, afrodiscendenti, mulatti o indigena. Si comincia con l’umiliare nelle case la domestica negra, quella che, con il grembiule, spingeva il passeggino del figlio della coppia borghese alla manifestazione del 13 marzo contro il governo. Al mio indirizzo, gridano: «Comunista, invasore di terre, vattene a Cuba…»

Abbiamo poi un parlamento molto conservatore e staccato dalla sua base elettorale. E un nucleo ideologico più compatto, che sta orientando le altre forze della destra: quello formato dal Pubblico ministero, dal giudice Sergio Moro, associato alla Globo. I media sono controllati da questo nocciolo duro e vengono usati come principale arma contro i lavoratori e per attizzare il golpe istituzionale. Se il governo vince, ci sarà un nuovo gabinetto coordinato da Lula, che dovrà operare una riforma ministeriale che non spartisca gli incarichi di governo in base ai partiti, ma che rappresenti la società.

La conciliazione è finita. Dilma dovrà tornare al programma per cui è stata eletta, più attento ai settori popolari. In ogni modo, la crisi del modello continuerà, ma avremo tre anni per discutere di un altro progetto di paese. In ogni caso, maggio sarà un mese determinante.