Dove abbiamo già visto questo paesaggio, diverso da ogni altro in Italia? Forse nel Colorado di qualche film western americano»: riassumiamo la folgorante osservazione di Tino Ranieri, coautore del commento e della regia di Il Carso, un mondo di pietra (1961), uno di quei capolavori sotterranei, carsici come è nella natura del cinema, che costellano il programma della XX edizione dei Mille occhi. Per la quale ho lasciato la direzione a Giulio Sangiorgio e Olaf Möller, mantenendo un ruolo carsico di attraversatore dei programmi. Questi nascono da una pluralità di slanci di più persone e vogliono scoprire la persistenza delle passioni nell’opera di cineasti di ogni tempo.

Che il Premio «Anno uno» vada a una coppia di cineasti divisi dalla morte (Danièle Huillet e Jean-Marie Straub) è un gesto che sintetizza lo spirito dreyeriano del festival. Che si possano vedere in anteprima mondiale gli inediti di Giulio Questi è un grande dono. Che, curato da Dario Stefanoni, si riscopra il grande umorista Anton Germano Rossi, è un immenso piacere: e si capirà che la sua unica regia Il ladro, accusato in epoca fascista di «indegnità artistica» (in curioso parallelismo con altri regimi, da Vichy che bolla come cretino Pension Jonas di Caron alla espulsione dalla Jugoslavia di Marijan Vajda per lo «stupido» Šeki), è invece un capolavoro.

L’omaggio a Ranieri (in un centenario della nascita che condivide col coregista Gianni Alberto Vitrotti), curato da chi scrive con Sergio Crechici e Mila Lazic, riunisce per la prima volta i due soli film da cineasta di questo triestino che si considerò innanzitutto spettatore di cinema. Oltre al citato Il Carso (incrociato con un omonimo e coevo documentario di Franco Giraldi scritto da Callisto Cosulich, restaurato da Cinemazero con Cineteca di Bologna, e a cornice due capolavori del primo Vitrotti, il pioniere Giovanni) si vedrà l’inedito in sala Ceneri della memoria (1962), sguardo pulsante sull’antisemitismo dell’apolide Ranieri, con la regia di Alberto Caldana. Un veneto questi (come Gianni Da Campo e Giuseppe Taffarel che al festival sono cari) insieme a vari triestini, perché il festival non teme d’immettere in un orizzonte di scelte internazionale la scoperta di ciò che è dietro l’angolo e di cui anche perciò tardiamo a capire il rilievo universale.

Grazie allo stretto rapporto con la Cineteca del Friuli di Gemona, il festival ha inoltre liquidato la divisione tra friulani e giuliani in una regione molteplice, con la essenziale componente slovena, con le presenze delle comunità tedesche, serbe, croate, ebraiche ecc. Tino Ranieri, nato Costantino Krainer, che collaborò al film veneto prodotto da Tullio Kezich Il terrorista e poi a Milano si legò a Ugo Casiraghi scrivendo per l’Unità e Il Calendario del popolo, e da lontano ispirò a Trieste la nascita del primo Festival di fantascienza al mondo, e scrisse talvolta con pseudonimo tanti magnifici libri western o comunque d’ambientazione americana per i ragazzi, è una figura di apolide universale degno di riscoperta.

Non è la sola cosa del festival che parte dal territorio e si collega con una dimensione più ampia. Si vedrà per esempio dopo 80 anni La statua vivente di Camillo Mastrocinque, che dopo l’uscita nel 1943 era subito sparito e di cui la Cineteca del Friuli ha localizzato una copia 16mm in Argentina. Col sostegno di MIC, Regione FVG e Fondazione Friuli ne è stato fatto prima un restauro digitale, presentato a Locarno, e poi il ritorno dopo 80 anni su copia 35mm, di cui la più giusta anteprima mondiale, che avverrà il 24 marzo sera al Teatro Miela, è a Trieste perché si tratta del primo lungometraggio integralmente (salvo pochi interni) girato in questa città. Ispirandosi a un testo ottocentesco del sandanielese Teobaldo Ciconi, adattato da Giorgio Pàstina, il sodalizio sentimentale e artistico tra Mastrocinque e l’attrice triestina Laura Solari ha donato alla città di lei un grande film, un noir con doppio ruolo femminile della protagonista, che come altrove Bette Davis, Yvonne Sanson e Kim Novak crea due personaggi femminili in cui il protagonista maschile Fosco Giachetti, vedendo nel doppio solo una statua vivente, condanna sé e lei all’inferno. La fotografia di Aldo Tonti, come nel coevo e molto più noto Ossessione di Visconti, è un vero prodigio, ed ecco perché il film lo presenta al festival Dante Spinotti.

Dono nel dono, il film contiene una canzone che evoca Dante e Beatrice e dà una chiave d’interpretazione dantesca a tutto il film. E allora del grande Mastrocinque si unisce nel programma il da tempo invisibile in sala Totò all’inferno, in una rassegna dantesca che oltre al lavoro del Teatro delle Albe riunisce i tre massimi cineasti italiani rivelati dai critici macmahoniani Michel Mourlet e Jacques Lourcelles, ovvero Vittorio Cottafavi, Raffaello Matarazzo e Riccardo Freda. Ci sembra di poter coronare oggi la genialità della critica di Présence du cinéma con la riscoperta di Mastrocinque, che in L’uomo dal guanto grigio si sposterà dalla scultura alla pittura e nel tardo Un angelo per Satana vedrà in Barbara Steele un’altra «statua vivente».

La domanda è allora: si accorgerà alfine la città di Trieste, con le sue istituzioni spesso inerti, che qui avviene una riscoperta delle ricchezze di questa città e della regione? Persino nella rilettura in progress della retrospettiva di Alberto Lattuada curata a Locarno da Roberto Turigliatto si è voluta segnalare una presenza locale, Tullio Kezich che fu cosceneggiatore e tramite del regista con lo scrittore Piero Chiara per Venga a prendere il caffè… da noi, il film che, restaurato dalla Cineteca Nazionale, apre la prima serata del 22 marzo al Cinema Ariston. Non solo Kezich: quel titolo ebbe un vero detour debordiano da parte dei «matti» dell’Ospedale psichiatrico di Franco Basaglia, che sui muri riscrissero il titolo in un «Venga a prendere l’elettroshock da noi»: è anche il miglior invito del festival alla propria città.