L’udienza si terrà al Quirinale, a porte chiuse e davanti ai soli giudici della corte d’assise e ai magistrati della procura di Palermo. Niente pubblico, ovviamente, ma anche niente imputati né collegamenti in videoconferenza con le carceri dove sono rinchiusi i boss di mafia imputati nel processo. Sarà un’udienza blindata, ma alla fine il presidente della repubblica Giorgio Napolitano testimonierà nel processo sulla trattativa stato-mafia che avrebbe consentito di mettere fine alle stragi dei primi anni 90. A deciderlo è stato ieri il collegio presieduto da Alfredo Montaldo respingendo la richiesta avanzata dall’Avvocatura dello Stato e dai legali dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, tra gli 11 imputati del procedimento, di rinunciare a sentire il capo dello Stato. Non si può escludere il diritto delle parti ad ascoltare un testimone solo perché questi ha dichiarato di non avere nulla di significativo da dire, hanno spiegato in sostanza i giudici nell’ordinanza. Una decisione accolta dal capo dello Stato: «Non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza, secondo le modalità da definire, sulle circostanze oggetto del capitolo di prova ammesso», è spiegato in un comunicato emesso nel pomeriggio dal Colle.

Per la procura di Palermo, che ha sempre ritenuto importante poter ascoltare il capo dello Stato, si tratta di una vittoria niente affatto scontata. Dopo che a ottobre del 2013 la Corte d’assise aveva accettato al richiesta avanzata dai pubblici ministeri Teresi, Di Matteo, Del Bene e Tartaglia, Napolitano aveva risposto inviando una lettera alla corte in cui spiegava di non avere grosse novità da raccontare, ritenendo così di aver chiuso la questione. Ma «la lettera del presidente – spiegò allora il procuratore aggiunto Teresi – non può essere intesa come sostitutiva della testimonianza del teste. la lettera non esaurisce l’argomento da chiarire così come da capitolato di prova».
Da Napolitano i pubblici ministeri vogliono chiarimenti sulla lettera che nel giugno del 2012 gli inviò il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, morto in seguito. Erano i mesi in cui infuriavano le polemiche per le telefonate al Quirinale fatte dall’ex ministro degli Interi Nicola Mancino (accusato di falsa testimonianza nel processo in corso a Palermo), polemiche che amareggiarono molto D’Ambrosio, tanto da spingerlo a scrivere Napolitano esprimendo il timore di «essere stato considerato solo un utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi, e ciò nel periodo tra il 1989 e il 1993». Sono gli anni delle stragi mafiose, in cui D’Ambrosio si trovava in servizio all’Alto commissariato per la lotta alla mafia e poi al ministero della Giustizia.
Cosa intendeva dire con quelle parole D’Ambrosio? E’ quello che la procura di Palermo vuole sapere da Napolitano, destinatario dello sfogo del suo consigliere giuridico. E il fatto che il capo dello Stato abbia spiegato di non avere nulla di dire in proposito, non è motivo sufficiente per cancellare la sua testimonianza: «la superficialità io irrilevanza di una prova testimoniale – scrivono i magistrati – deve essere valutata dal giudice esclusivamente in relazione ai fatti oggetto dell’articolato e alla sua riferibilità al teste indicato e non già in relazione a o i previsione di ciò che il teste medesimo può sapere o non sapere». la lettera inviata a ottobre da Napolitano non può dunque considerarsi come un elemento utile per riconsiderare la richiesta della procura. E questo, spiegano i giudici «sia perché il contenuto non è utilizzabile in processo in assenza di accordo acquisitivo della stessa. Sia, soprattutto e in ogni caso, perché ove anche si volesse prendere atto del diniego dio conoscenze già espresse dal teste, ciò nonostante, non potrebbe di per sé solo ritenersi che sia venuto meno l’interesse della parte richiedente ad assumere la testimonianza».

«Il capo dello Stato dovrebbe pretendere che l’audizione si tenga a porte aperte così che i cittadini da lui rappresentati possano ascoltarlo e rendersi conto che aspira alla verità e alla giustizia», è stato il commento di Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso nel 1992.