È caccia all’uomo in Mali il giorno dopo l’attacco al lussuoso hotel Radisson Blu di Bamako – meta di diplomatici, uomini d’affari e clientela internazionale – mentre, tra imponenti misure di sicurezza, il governo ha decretato lo stato di emergenza in tutto il Paese per dieci giorni e tre giorni di lutto nazionale a partire dalla mezzanotte di venerdì scorso.

Sarebbero almeno tre le persone «attivamente ricercate» – secondo fonti di sicurezza maliane – perché sospettate di essere implicate nell’attentato di venerdì mattina. Il bilancio ufficiale fornito dal presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Këita (in visita ieri al Radisson nel quartiere Aci 2000 Hamdallaye, accompagnato dal primo ministro Modibo Keita e da diversi membri del suo governo) è di 21 vittime.

Tra queste ci sarebbero almeno 13 stranieri di cinque diverse nazionalità: 6 russi (dipendenti della compagnia aerea Volga-Dnepr, con sede nella regione dell’Oulianovsk come confermato dal ministro degli esteri russo e dall’agenzia Interfax), 3 cinesi (dirigenti della China Railway Construction in visita in Mali per discutere di progetti di cooperazione con i governi africani), 2 belgi (tra cui Geoffrey Dieudonné, 39 anni, un alto funzionario del parlamento della Federazione Vallonia-Bruxelles); un’ americana (Anita Ashok Datar); un senegalese (dipendente di una compagnia petrolifera, come confermato dal ministro senegalese degli Affari esteri, Mankeur Ndiaye) e un cittadino israeliano (notizia diffusa dai media maliani ma al momento non ancora confermata dal governo israeliano).

Tanto Vladimir Putin quanto Barack Obama e Xi Jinping hanno condannato l’attentato. Putin, che già giovedì in un colloquio telefonico con Hollande ha convenuto sulla necessità di rafforzare il coordinamento delle azioni militari contro i jihadisti in Siria, ha invocato «la più ampia cooperazione internazionale» nella lotta alla minaccia terroristica globale.

A rivendicare l’attacco al Radisson sarebbero stati due gruppi jihadisti: Al Mourabitoune guidato da Mokhtar Belmokhtar e Al-Qaeda in the Islamic Maghreb (Aqim), stando a una registrazione audio trasmessa dalla tv Al-Jazeera e come confermato dal ministro francese della Difesa Jean-Yves Le Drian secondo il quale sarebbe «molto probabile» che la mente dell’assalto sia stato Belmokhtar, uno degli uomini più ricercati del mondo, lo stesso che si rese responsabile dell’attacco contro un impianto di gas algerino nel 2013 in cui circa 40 ostaggi (per la maggior parte occidentali) furono uccisi.

Lo stesso Le Drian ha poi confermato che a sostegno delle forze maliane a mettere fine all’assedio e a liberare gli ostaggi (170, di cui 140 ospiti e 30 membri dello staff) sono intervenute le forze speciali francesi di stanza a Ouagadougou – Burkina Faso – quaranta membri del Groupe d’intervention de la gendarmerie nationale (Gign) in Mali, le forze del Minusma (Mission des Nations Unies au Mali) e quelle americane. Una settimana dopo gli attentati di Parigi (130 vittime) rivendicati da Daesh e tre settimane dopo che un aereo di linea russo è stato abbattuto sulla penisola egiziana del Sinai (uccidendo tutte le 224 persone a bordo), l’attentato in Mali sembra spostare l’asse mediatico del terrore, dall’Europa e dalla Siria, in Africa.

Alle volte oscurata e declassata rispetto a quella mediorientale dalla maggior parte dei media internazionali, la jihad e lo scenario geo-politico africano conta da lungo tempo ormai una radicata operatività di gruppi e cellule integraliste in maggioranza legate ad Al-Qaeda oltreché di conflitti dimenticati e di unità militari europee e d’oltreoceano.

Sono circa 3,500 le truppe francesi di stanza nel nord del Mali da quando nel 2013 Parigi lanciò l’operazione Serval, proseguita l’anno dopo nell’operazione Barkhane con cui è stata costituita (in pratica e contrariamente ai tanto propagandati propositi antiterroristici e di instaurazione di democrazie in loco) una cintura di presenza militare francese nei cinque paesi africani settentrionali Burkina Faso, Mali, Ciad, Niger e Mauritania (che formano il G5 del Sahel) in difesa di interessi e obiettivi strategici, militari ed economici nel framework di una politica colonialistica che non ha mai conosciuto interruzione di sorta.

Proprio questi Paesi riuniti venerdì in un vertice a N’Djamena (nel Ciad) hanno annunciato imminenti misure antiterroristiche, come la creazione di una forza congiunta regionale mentre Bamako era sotto il fuoco dei jihadisti.

Che Bamako fosse nel mirino dei gruppi terroristici locali, era già chiaro alla Sécurité d’État – i servizi d’intelligence del Mali – dal 7 marzo scorso dopo l’attacco, il primo mortale anti-occidentale a Bamako, al bar-restaurant La Terrasse (5 i morti, tra cui un francese e un belga), nel centro della capitale, rivendicato dal gruppo Al Mourabitoune di Mokhtar Belmokhtar, a cui seguì il 7 agosto quello all’hotel Sévaré da parte del Front de Libération du Macina.

Sono diversi i gruppi terroristici attivi dal Nord al Sud del Mali, tra questi Al-Qaeda in the Islamic Maghreb (Aqim), Al Mourabitoune, le Front de libération du Macina, Ansar Eddine. Al Mourabitoune si sarebbe recentemente scisso in due fazioni, di cui una sarebbe rimasta affiliata ad Al-Qaeda mentre quella guidata da Adnan Abou Walid Al Sahraouin si sarebbe affiliata con Daesh e sarebbe attiva soprattutto nella regione del Menaka nel Nord del paese.