Più dello stato effettivo della nazione il rito mediatico e politico dello State of the Union misura di solito lo stato di grazia politica del presidente che lo presenta. Ieri sera Barack Obama ha parlato alle camere riunite per la quinta volta dalla sua prima elezione, l’ultima prima del voto midterm di novembre, e l’epica  bufera di neve che si e’ abbattuta sulla cupola del Capitol e’ sembrata in tono con la narrazione attualmente prevalente del grande freddo sul suo secondo mandato.

I dati economici – compreso quello sulla  disoccupazione (6,7%), il piú basso in cinque anni –  sono oggettivamente migliorati rispetto alla catastrofe ereditata da Bush ma i numeri in relata’ sono fuorivianti. Gli impieghi creati dalla “ripresina” dopo il tracollo della recessione ad esempio rappresentano in gran parte lavori scadenti nel terziario che sostituiscono quelli bruciati nella manifattura,  e nei fast food i liceali part-time competono ormai con capifamiglia ex-middle class. E’ la fotografia di una forbice sociale sempre piu’ spalancata, come la voragine fra ricchi e poveri – e una “scala sociale” sempre piu’ scivolosa e illusoria, mentre il settore finanziario annovera nuovi record di utili aziendali.  Non per niente i sondaggi piu’recenti rivelano che il 63%  degli americani ritiene che il paese si stia muovendo nella direzione sbagliata mentre il 59% si dichiara pessimista. Dal canto suo Obama punta ad abbinare alla ripresa un’espansione del welfare; la principale scommessa, sulla riforma sanitaria, e’ una vittoria parziale ma assai imperfetta. I repubblicani hanno fatto del suo boicottaggio il perno di una strategia che mira a riprendere il controllo del senato nelle elezioni di novembre e danneggiare Hillary Clinton nelle presidenziali del 2016. Una classica sindrome da ”anatra zoppa” insomma, un presidente che conclude il secondo mandato in balia dell’opposizione deludendo tutti, compresa la base progressista che da anni aspetta invano di vederlo infine passare all’attacco.

Date le premesse, Obama ieri sera è parso fin troppo disteso e a suo agio nell’intraprendere una rappresentazione mediatica sul tema dell’opportunita’ (il marchio di fabbrica dell’America l’ha definita il presidente) con riferimenti  a soggetti strategicamente inquadrati nel pubblico (l’imprenditirice agevolata da una linea di credito federale, il figlio di immigrati iscritto al college, il gestore di pizzerie che ha dato l’aumento al personale, la malata che grazie alla nuova mutua ha potuto operarsi senza fallire). Una performance patinata fra lo standup comedy, la predica e l’arringa politica con un copione da spot elettorale:  “in America stamattina una maestra e’ rimasta un po’ di piú con un allievo… un’imprenditrice  ha acceso le luci di una startup e contribuito  a creare impiego… un metalmeccanico ha fatto gli ultimi ritocchi a un motore ad alta efficenza che aiutera’ il nostro paese a diventare energeticamente autosufficiente..” E’ mancata solo una adeguata colonna sonora per accompagnare i siparietti a base di medici condotti, bambini che aiutano i padri a mungere le bestie all’alba e soldati tornati dalla guerra al focolare domestico.

Come era giá stato anticipato, dopo il preambolo hollywoodiano, Obama ha dichiarato che il 2014 sarà “l’anno dell’azione”, uno scenario a dir poco improbabile dato l’immobilismo senza precedenti del congresso, paralizzato dall’ostruzionismo  repubblicano. Per dimostrarlo Obama ha comunque ufficializzato l’aumento dei salari minimi da $7,50 a $10,10, la cifra  a cui si dovranno attenere da oggi gli appaltatori di beni e servizi al governo federale quali ad esempio i fornitori dell’esercito. La prima “azione esecutiva” dell’anno nasce dall’oggettiva necessitá di rimediare alla sindrome  dilagante del sottolavoro ma e’ anche la dimostrazione di quanto sia limitato l’effettivo raggio di azione del presidente. Per estendere l’aumento a tutti i dipendenti pubblici infatti non e’ sufficente un decreto ma sono necessari i voti  del parlamento, in particolare della camera a maggioranza repubblicana che difficilmente varera’ una legge simile. Inoltre la facoltà di imporre minimi salariali al settore privato resta di competenza dei singoli stati che Obama ha potuto solo esortare a seguire il suo esempio.

La liturgia degli obbiettivi da perseguire  che è seguita è parsa piuttosto familiare alla platea di politici e dignitari riuniti nella rotonda e che hanno seguito senza molto entusiasmo un discorso improntato alla moderazione: impulso al settore energetico, sempre  nei limiti del rispetto per l’ambiente; incentivi a mutui e risparmi ma anche alle aziende; tutelare il  diritto di  voto  e imporre norme di sicurezza sulle armi. Su alcuni temi Obama è stato piu’ accorato, in particolare sulla riforma sanitaria e quella sull’immigrazione, un’altra battaglia annunciata coi repubblicani dove però questi ultimi hanno molto più da perdere. L’elettorato ispanico è sempre piú determinante per gli equilibri politici a lungo termine e i repubblicani sanno che difficilmente potranno tornare al potere senza fare delle concessioni all’agevolazione dell’immigrazione che chiede la comunità “latina”. E’ uno degli argomenti dove Obama potrebbe effettivamente avere un’influenza come in certa misura è stato su quello della disuguaglianza economica. Con l’avvicinarsi delle elezioni, infatti, i repubblicani sono passati dal definirla una provocazione ad ammettere che si tratta di un vero problema – da risolvere, naturalmente, incentivando il libero mercato.

In tema di retribuzioni Obama ha chiesto che vengano finalmente equiparati i compensi di uomini e donne dicendo che “è ora di superare sistemi piú adatti ad una puntata di Mad Men” . E’ stato uno dei momenti  più applauditi del discorso assieme all’affermazione del recupero degli investimenti rispetto alla Cina, alla prospettiva delle molte prossime vittorie olimpiche a Sochi di un Team USA  che “non fa distinzioni in base a razza, religione e preferenze sessuali” e all’inevitabile tributo ai “sacrifici dei ragazzi nelle forze armate”, segnale automatico per uno scatto bipartisan sull’attenti. Obama ha calcato sulla promessa mantenuta della “fine delle guerre” col ritiro già effettuato dall’Iraq e quello di prossimo completamento dall’Afghanistan dove “potrà comunque rimanere una piccola forza americana congiuntamente a truppe NATO, per azioni mirate di  addestramento e contenimento”.

Ma per Obama la conclusione delle spedizioni nei due paesi deve essere l’occasione per un inversione di rotta, la fine di massicce presenze militari  a lungo termine che “rischiano tra l’altro di rivelarsi controproducenti” per privilegiare offensive diplomatiche  nei punti critici, dalla Siria, alla Palestina, all’Iran (ma il suo appello di appoggiare i negoziati con Tehran e’ stato accolto assai tiepidamente da un congresso che molto probabilmente si appresta a votare contro l’iniziativa di Kerry). La politica estera e’ stato l’argomento su cui Obama almeno a parole,  e’ stato più spregiudicato. “L’America non deve piú essere permanentemente sul piede di guerra”,  ha affermato, aggiungendo: “Ho imposto limiti prudenti all’utilizzo dei droni poiché non saremo piú sicuri se colpiremo altri paesi senza curarci delle conseguenze. Ed e’ per questo che intendo riformare, assieme al congresso, i programmi di sorveglianza, perche’ il lavoro vitale dei nostri servizi di intelligence dipende dalla pubblica fiducia, qui e all’estero, che non venga violata la privacy dei cittadini”. E’ stato l’unico accenno, in oltre un ora di discorso, allo scandalo NSA (alla quale, tra l’altro, aveva dichiarato in precedenza che non intende porre significativi nuovi limiti).  E’ seguita una dichiarazione su un tema che era stato centrale nella sua prima campagna elettorale. “Questo deve essere l’anno – ha dichiarato il presidente – in cui il congresso dà il via libera al trasferimento dei detenuti di modo da poter finalmente chiudere Guantanamo!” Una promessa che finora è stata uno dei fallimenti più dolorosi della sua presidenza; risulta difficile immaginare come possa riuscire a mantenerla adesso, nella sua fase “azzoppata”.