L’ultima proroga dello stato d’allarme, ottenuta sempre più faticosamente mercoledì sera dal presidente Sánchez, ha portato con sé la tormenta politica più importante dall’inizio di questa legislatura. Ieri sera la bufera non si era ancora placata.

Al centro della polemica, un documento a cui mercoledì avevano apposto la propria firma i tre capigruppo parlamentari dei socialisti (Adriana Lastra), Unidas Podemos (Pablo Echenique) e EHBildu (Mertxe Aizpurua). Per ottenere che EHBildu si astenesse (invece di votare contro) sull’estensione dello stato d’allarme – risultato chiave per permettere al governo di gestire l’uscita graduale e controllata dal lockdown e non lasciarla in mano alle 17 comunità autonome – l’accordo prevedeva nel suo primo punto l’abrogazione «integrale» della controversa riforma lavorativa approvata nel 2012 dal partito popolare. E oltretutto «prima della fine delle misure straordinarie per il Covid-19».

Il tema è assai delicato: UP non era riuscita a ottenere dai socialisti più di un «correggere i punti più controversi» di una riforma che aveva distrutto gran parte dei diritti dei lavoratori e reso il licenziamento facilissimo. In piena crisi e in un anno in cui la disoccupazione aveva raggiunto 6 milioni di disoccupati, più di un quarto della forza lavoro. Tra martedì e mercoledì i socialisti hanno negoziato disperatamente con le altre forze parlamentari perché la quinta proroga dello stato d’allarme non fallisse. Oltre a Vox, stavolta anche il Pp votava No (l’ultima volta si erano astenuti). A questi si sono aggiunti anche i catalani di Junts per Catalunya, Esquerra republicana (che avevano votato sì all’investitura) e Cup, e gli alleati valenziani di Podemos e socialisti, Compromís. Alla fine, oltre a Psoe e Up avevano appoggiato la proroga Ciudadanos (che sotto la guida di Inés Arrimadas ha abbandonato il radicalismo di destra) e altri piccoli partiti: l’astensione di Bildu non è stata quindi essenziale. Ma il risultato è stato incerto fino alla fine.

Per ottenere il voto di Ciudadanos, il governo aveva accettato di ridurre la proroga ai soliti 15 giorni (l’idea era di chiederlo per 35 giorni e lasciarsi alle spalle una volta per tutte queste logoranti trattative).

Bildu aveva reso noto nella tarda serata di mercoledì l’accordo, dopo il voto, spiazzando tutti. Nella notte, l’ufficio stampa dei socialisti ha smentito goffamente il testo firmato, correggendolo proprio nel punto più controverso, l’aggettivo «integro». La Confindustria spagnola ieri «indignata» ha abbandonato il tavolo delle trattative sociali, e gli stessi sindacati si sono detti sorpresi dell’accordo. La ministra del lavoro, Yolanda Díaz, fedelissima di Pablo Iglesias, pare non sapesse nulla del patto: teme di perdere la pace sociale necessaria davanti all’enormità della crisi che ci aspetta e nell’imminenza del varo del reddito minimo, misura su cui Podemos punta tutto.

Mentre i socialisti si arrampicavano sugli specchi («non stiamo rettificando quello che abbiamo firmato, lo stiamo chiarendo», ha detto Lastra) e la vicepremier economica Nadia Calviño, considerata molto vicino a Bruxelles e che secondo le ricostruzioni giornalistiche sembra abbia fatto una sfuriata una volta conosciuto il testo dell’accordo, modulava il suo malessere in pubblico («sarebbe assurdo e controproducente aprire un dibattito del genere e provocare insicurezza giuridica in questo momento»), il leader di Podemos, consapevole Sánchez potrebbe avere la tentazione di ricorrere ancora al forno di un Ciudadanos più malleabile a destra, ricorreva al latino: «Pacta sunt servanda» e Aizpurua faceva la democristiana: «Il Psoe non ha rettificato, ha fatto una precisazione terminologica che non mi preoccupa troppo. Abbiamo un accordo e mi sembra ottimo che si inizi a chiarire».