Migliaia di persone hanno marciato ieri con la famiglia Obama sul ponte intitolato al generale confederato e «grand wizard» del Ku Klux Klan Edmund Pettus. L’occasione era storica: rievocare la storica marcia per i diritti civili da Selma a Montgomery, fermata con la violenza dagli state troopers dell’Alabama segregazionista 50 anni fa.

La feroce violenza contro gli inermi manifestanti documentata dalla stampa nazionale avvenuta a Selma quell’8 marzo 1965 segnò una svolta nella lotta per il diritto di voto dei neri nel sud americano e avrebbe indotto Lyndon Johnson a cedere alle richieste di Martin Luther King e firmare di li a pochi mesi il voting righst act, che garantiva l’accesso ai seggi per gli afroamericani dopo quasi un secolo di discriminazione.

Ieri a commemorare bloody Sunday a Selma c’erano due presidenti (oltre d Obama anche George Bush), la first lady, Jesse Jackson, Martin Luther King Jr. e John Lewis che quel marzo di 50 anni fa sotto i manganelli del Pettus c’era e che ieri ha definito il ponte «quasi un luogo santo, dove molti hanno sparso il proprio sangue per redimere l’anima di questo paese».

Ieri Lewis ha introdotto Obama alla folla di diverse migliaia di persone ricordando come una recente sentenza della cassazione abbia da poco rimesso in discussione il voting rights act conquistato allora col sangue.

Nel 2013 la corte suprema a maggioranza conservatrice ne ha infatti invalidato alcune clausole centrali e molti stati controllati dai repubblicani come il Wisconsin, l’Ohio e il Texas, hanno introdotto emendamenti ai propri statuti elettorali per limitare nuovamente la partecipazione di neri e delle altre minoranze etniche di fede prevalentemente democratica. Dimostrando che anche oggi le dinamiche politiche americane continuano ad avere una forte componente razziale con un partito repubblicano in rappresentanza di un elettorato bianco più anziano e quello democratico che esprime le voci multietniche delle nuove generazioni.

Anche per questo nel suo intervento di ieri Obama ha detto che gli eventi di 50 anni fa ricordano il potere che hanno «le persone ordinarie di ottenere risultati straordinari» ma ha anche avvertito che «Selma is now».

Grazie anche al film di Ava du Vernay che dalla città prende il titolo, Selma ha galvanizzato negli ultimi sei mesi un nuovo movimento per i diritti civili che ha preso l’impuslo dai fatti della scorsa estate a Ferguson.

L’epidemia «silenziosa» è diventata lampante piaga nazionale scandita da un funesto bollettino di vittime nere della polizia. Di recente le morti di Trayvvon Martin, Eric Garner, John Crawford, Tamir Rice fino ai recentissimi Charley Leundeu Keunang, detto «Africa» ucciso dal Lapd la scorsa settimana e Tony Terrell Robinson, Jr ammazzato solo ieri da un agente della polizia di Madison in Wisconsin, sono diventati il simbolo di un razzismo ancora ben radicato nella società Americana.

Gli agenti responsabili sono stati prosciolti dalle accuse, un dato definito insostenbile dallo stesso ministro della giustizia di Obama, Eric Holder. Negli ultimi due anni l’attorney general afroamericano ha aperto inchieste federali su numerosi casi di giovani neri ammazzati dalla polizia.

Dopo Ferguson ha specificamente condannato la militarizzazione della polizia anche questo un dato storico sempre dato per scontato. Holder ha allargato l’analisi critica al fenomeno sociale denunciando «un utilizzo eccessivo della carcerazione» come rimedio sociale economicamente insostenibile oltre che eccessivamente costoso in termini «umani e morali».

Holder è stato dunque il primo attorney general a rompere l’omertà istituzionale, articolando l’obbrobrio morale rappresentato anche dall’immagazzinamento delle generazioni di «sepolti vivi» nella «più grande democrazia occidentale»: quei 2,3 milioni di carcerati composti per oltre il 40% da afroamericani. L’ultimo atto di Holder è stato l’apertura dell’inchiesta di sei mesi che ha palesato nella polizia di Ferguson una razzismo sistematico e istituzionale di livello «sudista». Il dipartimento di giustizia potrebbe ora commissariare ed eventualemente chiudere d’ufficio la polizia di Ferguson, un’azione che rimanderebbe ancora di più alle iniziative intraprese da un altro attorney general, Robert Kennedy, proprio ai tempi di Selma.

L’anniversario di ieri in Alabama è stato più di una celebrazione di circostanza, ma si tratta di una ricorrenza che cade in un momento di straordinaria risonanza per un America che sotto la prima «presidenza afroamericana» confronta l’amara ironia di un momento di massima tensione razziale, la più alta degli ultimi decenni. La convulsione di Ferguson ha disilluso il compiacimento «post-razziale» del’America obamiana e messo nuovamente il paese davanti ai fantasmi evocati ieri.

Come ha affermato Ava Du Verany, la regista di Selma: «Molte delle conquiste ottenute da King negli anni 60 oggi sono minacciate. E non sulle nostre strade assistiamo ad uccisioni a ripetizione per le quali nessuno viene mai rinviato a giudizio. Sono fatti che ti fanno capire quanto il progresso possa essere ribaltato e forse un problema è il compiacimento, l’idea che tutto è stato messo a posto 50 anni fa. È chiaro invece che occorre oggi più che mai tenere viva la discussione».