Due ore scarse per celebrare l’apertura degli «stati generali dell’editoria» presso la presidenza del consiglio. Così ieri il premier Conte e il sottosegretario con delega Crimi hanno ottemperato a un impegno assunto nella conferenza stampa di fine anno. Peccato che la «prima» corresse su un canovaccio prestabilito, con pochi interventi e un pubblico contingentato. Per un governo che si ritiene voce narrante del popolo, non c’è male.

Se non fosse stato per Radio radicale, che peraltro l’esecutivo ha crudelmente punito dimezzandone le risorse e mettendone in forse l’esistenza, non si sarebbe conosciuto ciò che è avvenuto nelle segrete stanze, aperte ai giornalisti solo dopo forti proteste.

L’impressione è che si sia fatto tanto rumore per quasi nulla. Infatti, a parte le prevedibili parole di Conte (forse con l’eccezione positiva del cenno alle querele temerarie), la relazione di Crimi ha detto meno di ciò che le varie interviste rilasciate nell’ultimo periodo avessero indotto a supporre.

Il sottosegretario del settore si è limitato a esporre i titoli generali dei passaggi previsti per giugno, luglio e settembre: dalle agenzie di stampa, alla deontologia, agli istituti previdenziali, all’Ordine, alla distribuzione, alla concorrenza, al diritto d’autore (ma nulla sulla direttiva europea oggi nell’aula di Strasburgo).

Nel merito il solito mantra: sostenere il pluralismo e non le singole testate. Già, la categoria generale e non la sua declinazione reale interpretata da persone in carne e ossa. Che ora sono a grave rischio di trovarsi disoccupati dopo la cura gialloverde, simile quest’ultima a quella dei dotti medioevali che curavano le malattie con le sanguisughe.

La traduzione concreta di tali ipotesi si capirà meglio se il governo coinvolgerà il parlamento con qualche più dettagliata proposta di legge.

In verità, non nella relazione, bensì nelle dichiarazioni successive Crimi ha esplicitato meglio la volontà di tagliare il fondo per il pluralismo, persino soffermandosi su il manifesto con un certo accanimento. Va ribadita una banale verità: quali «stati generali» se i referenti concreti (editori, giornalisti, edicolanti, lettori, etc.) nel frattempo soccombono?

Di tali aspetti hanno parlato con precisione il segretario della federazione della stampa Lorusso e il presidente dell’ordine Verna: il primo sul tema dell’occupazione e della mancanza di certezze; il secondo rilanciando, tra l’altro, la giusta idea di una moratoria rispetto ai tagli previsti dalla legge di bilancio. E sì, è questa la parola d’ordine necessaria: qualsiasi confronto è reso impraticabile se sono già scritte le condanne a morte. Non solo.

Nel suo pur felice intervento Marco Giovannelli, rappresentante dell’associazione delle testate online Anso, ha sottovalutato che nell’editoria analogico e digitale sono vasi comunicanti: non c’è futuro per blog professionali o start up nell’innovazione se crollano le fondamenta del sistema. Da quel crollo derivano inesorabilmente contraccolpi per l’intero universo.

Si è accennato, ma non troppo, ai nuovi oligarchi della rete, che spadroneggiano cannibalizzando l’informazione e neppure pagando adeguatamente le tasse. Gli «Over The Top» sono il grande problema di un presente che è già futuro. Anche nella pubblicità Google e affini sono «trust» terribili, come ha ricordato Giovanna Maggioni per gli utenti dell’advertising ormai in presenza di soggetti potenti e prepotenti.

Gli editori, con il presidente Riffeser, non sono sembrati offrire particolari suggestioni, a parte l’accenno ai prepensionamenti e la curiosa richiesta di estendere la «par condicio» ai giornali (come si fa? chi controllerebbe?).

Ma l’intervento pubblico – come ha rammentato Vetere dell’Uspi- è considerato desueto proprio nell’editoria, mentre il governo lo sta rilanciando ovunque?

La federazione della stampa ha poi svolto nel pomeriggio le sue controdeduzioni. Certamente giuste, se si rilancia davvero il conflitto. A fari spenti si va a sbattere.