Da Hbo, dopo un’estate torrida di trasmissione negli USA e corollario di polemiche, Euphoria è arrivata anche in Italia, su Sky Atlantic e Now Tv, con il suo portato di scandalo, per lo più legato alla visualizzazione di ciò che ancora non può essere mostrato sugli schermi, l’idolo fallico, peraltro qui ridicolizzato (eppure in un certo senso riumanizzato), ridimensionato nella sua fibra gommosa, tutt’altro che turgida, quando una delle protagoniste, Kat, si dedica a spettacoli di varia nudità via Skype, incappando in uno slave bolso, pallido al limite del livore, solo e disperato, in cerca di umiliazioni: la sua nuda tenerezza e la coscienza dell’essere niente se non un coacervo di anomalie, si accorda a quella di Rue, strappata al proprio paradiso amniotico al momento della nascita e per questo reagente all’inferno del mondo attraverso la bipolarità e stati d’ansia lancinanti, costretta allora a rincorrere la pace (tutta fittizia) dei paradisi artificiali. Mentre del corpo femminile non viene ostentato quasi nulla da sotto il lucore dei vestiti discinti – ci si sarebbe aspettato sfoggio di grandi e piccole labbra, sgusciati, roridi clitoridi di queste piccole donne, visto l’impianto di esplicitezza corporale della serie – se non i seni magnifici di Sydney Sweeney (Cassie) o quelli efebici, in bassorilievo della modella transgender Hunter Shafer che interpreta Jules.

IL CHE DICE, già a livello epidermico e figurale, dello sguardo prevalentemente femminile (anche se ne è autore Sam Levinson) e femminista della serie, se pure attraverso una scrittura rude, disincantata, frutto della visione nevrotica, smagata di Rue (Zendaya), per cui i ragazzi sono quasi sempre a misura della loro esigenza, ossessione di sesso, e delle loro smorfie patetiche nel momento dell’orgasmo (ancora nell’accezione di Kat), per poi rivelarsi meschini o inetti (ad eccezione dello spacciatore Fezco e del timido compagno di banco di Kat, che s’eiacula addosso), e invece le ragazze sono emancipate, smagatamente disinvolte eppure consapevoli di non poter sfuggire alle regole dell’attrazione che magari le porterà a comparire loro malgrado in un qualche video su youporn, a essere brutalizzate, ingravidate, ecc.. In effetti il film di Avary (Le regole dell’attrazione, 2002) può funzionare da archetipo, tanto più perchè uscito all’inizio del terzo millennio e due anni prima di Mysterious Skin di Araki, cioè nel momento di definizione, autodeterminazione e normalizzazione (nella cifra delle proprie temperie ormonali), delle nuove generazioni, mentre ad esempio un film come Doom Generation (1995) poneva la disinibizione e lo sregolamento sotto il segno dell’eversione, dell’eccezione.

MA I RIFERIMENTI cinematografici sono molteplici e comprendono almeno Korine, Larry Clark (soprattutto nei primi due episodi, più laconici), magari l’Aronofsky di Requiem for a dream, fino alla citazione divertita di «pinze e saldatrice» di Pulp Fiction, quando la serie ha mutato il proprio registro invadendo il territorio della commedia di suspence (alla fiera di paese) e poi del noir (diatribe tra spacciatori). Ciò che non convince – oltre a un certo autocompiacimento della messa in scena a fronte però di un’estemporaneità degli avvenimenti, di una frammentazione della narrazione, che invece funziona, è l’inverosimiglianza di questa realtà di sedicenni già scaltriti come fossero dei ventenni o trentenni.

GIOVANI assuefatti all’utilitarismo, alla mercificazione corporale, ai meccanismi della pornografia, quasi senza darsi la possibilità di vivere l’esperienza sessuale come pienezza, godimento, processo di conoscenza, com’era (o poteva essere) invece in Sex Education, di cui a pensarci Euphoria sembra se non la trasposizione, almeno la variazione (ruvida) sul tema, in ambiente americano: anche qui c’è l’adolescente donna che scrive racconti erotici; il figlio del maggiorente della città alla prese con una presunta sua omosessualità; una totale intersezione interazziale (di cui Rue tra l’altro è frutto); le vicende collaterali del ragazzo-spacciatore; l’aborto mostrato nelle sue inferenze emotive, eccetera. Ma c’è qualcosa che nella serie inglese manca e che qui diviene centripeto: la purezza quasi angelicata, e sacrificata nel loculo di un motel, di Jules, silfide variopinta, transgender in balia del caos, di cui Rue s’innamora.
È una figura messianica, l’incarnazione di una nuova possibilità di essere, di esporsi ed esplorarsi, di esplorare la propria sessualità, i limiti della conoscenza mediante i nervi, i vasi sanguigni, la pelle: la nuova carne al tempo del postmoderno, o di ciò che viene dopo, un tempo irretito dalla sovrapproduzione delle immagini amatoriali, dagli schermi in quanto specchi ai cristalli liquidi, post-specchi (prima del Black Mirror) in cui constatare il grado di conformità dei propri corpi rispetto alla nuova società dello spettacolo (amatoriale).

IN QUESTO SENSO lo sguardo di Levinson è serenamente smaliziato, non arrendendosi certo a questa ipertrofia figurale, fotografica, audio-video (in ambiente domestico), ma in qualche modo adeguandovisi cercando di non fare drammi, quando sostiene che il 99% dei ragazzi e ragazze che escono dai college ha almeno un’immagine di sé nudo sulla rete. Insomma, non drammatizziamo: è solo questione di icone.