Nelle mani della produttrice Kathleen Kennedy e di un nuovo regista, a cui è già stata affidata l’ossatura della prossima trilogia, Star Wars continua la sua evoluzione- dalla sfera della gigantesca, bizzarra, ossessione lucasiana a quella più corporate della franchise.

Come The Force Awakens, ma con meno precisione di quella infusa a Episode VII da J.J. Abrams, anche The Last Jedi (in uscita oggi) lavora sulla ricucitura tra il presente e il passato della saga, tra il suo futuro cultural/economico e il mito originale, incarnato (scomparsa la supervisione autoriale di Lucas) dagli eroi fondanti – Leia, Luke Skywalker e Han Solo. Solo, ucciso da suo figlio Kylo Ren (Adam Driver) in un duello sospeso sul vuoto, come quello storico tra Darth Vader e Luke, in Il ritorno della forza, è scomparso definitivamente dalla scena, con Harrison Ford (la cui funzione antiautoritaria, comico/avventurosa è stata ereditata da Oscar Isaacs), ma è evocato qua e là; quasi un fantasma.

Il cuore del film, insieme alla nuova generazione – che comprende, oltre a Driver, il pilota Poe Dameron (Isaac), l’ex storm trooper Finn (John Boyega) e l’orfana Rey (Dasy Ridley)- è affidato a Leia e Luke.

Contestualizzata come al solito dalla scritta gialla che scorre sullo schermo accompagnata dal tema musicale di John Williams, la nuova avventura vede la Resistenza comandata da Leia in fuga.

Il Primo ordine sulle sue tracce grazie a un sistema di tracking di cui il generale e le sue truppe non sono al corrente. Rey, su cui, già nello scorso film aleggiava l’eredità della Forza è stata inviata alla ricerca di Luke. Intravisto (applausi a scena aperta), nello struggente finale di Il risveglio della forza, una silhouette incappucciata in marrone sul picco di un’isola deserta, Skywalker vive in una sorta di eremitaggio, circondato da ibridi di civette e pinguini, e da domestiche che ricordano un po’ delle suore francesi e un po’ dei pesci, dopo il fallimento della sua accademia per Jedi.

Gli occhi azzurri e vivaci di Mark Hamill sono circondati da un foltume di barba e capelli grigi. La sua presenza light di allora – è stato esiliato, da Return of the Jedi nel 1983, a una carriera tra serie B e televisione- è diventata oggi quella di un vecchio saggio.

Mentre Leia, Poe e Finn, ripresosi dalle ferite gravissime inflittegli nello scorso film, se le vedono con il perfido Snoke e il generale Hux, Rey passa buona parte della storia sull’isola, impegnata in tentativi spesso comici di convincere Skywalker a far la parte della cavalleria.

Con le sue taverne galattiche popolate di mostri buffi, le pantomime tra robot e quel suo nonsoché di retro-avanguardia, Star Wars ha sempre usato lo humor per stemperare la vena più epica, monumentale, della saga.

In The Last Jedi, però, è la prima volta che il comic relief ha un effetto regolare, meccanico, precotto sulla base dell’ipotetica risata di un teen ager del terzo millennio. Quasi meccanica, nonostante la bellezza del design, anche la digressione in un pianeta di biscazzieri che offre l’opportunità di nuove creature fantastiche, e di introdurre Benicio Del Toro nella trama.

Stregata dalla scomparsa di Carrie Fisher, un anno fa, la presenza di Leia in questo Episode VIII avrebbe potuto essere usata con più fantasia. Sì, certo, le vediamo molto, quasi troppo, visto che non ha molto da fare, ma non sembra che gli autori non abbiano fatto alcuno sforzo di creatività per incorporare la morte dell’attrice nel tessuto emotivo del film. Come succede naturalmente, o artificialmente (è il caso dei Fast and Furious) nei migliori lavori postumi.

Autore della regia e della sceneggiatura (il nuovo regime Disney sulla saga Star Wars ha mietuto vittime tra i registi: Colin Trevorrow, Gareth Edwards, Phil Lord e Christopher Miller), Rian Johnson arriva dal cinema indipendente (il suo noir d’esordio, Brick, era stato un successo a Sundance), non da quello dei movie brats come J.J. Abrams. Il che forse spiega una certa mancanza di fervore nerd in questo film che ha i suoi momenti migliori nella battaglia finale, su sabbie bianchissime che si strisciano progressivamente di rosso violento (non per il sangue ma per via di un sale misterioso che sta sotto la superficie); e che, drammaticamente parlando, punta a posizionare il rapporto tra Rey e Kylo Ren per rivelazioni a venire.

Più che con Rogue One (al quale Gareth Edwards era riuscito a dare un’impronta personale, per quanto confusa) nel suo nuovo assetto post Lucas, Star Wars si è normalizzato con questo film.

La Forza è salva per i posteri. Ma prigioniera di una suite d’uffici di Burbank.