Decine di poeti del Novecento hanno scritto versi su Genova: da Ceccardo a Campana, da Sbarbaro a Caproni, da Ghiglione a Conte. A questo campionario, dal quale non mancano stranieri come Valéry e Frénaud, ora si aggiunge l’inglese Julian Stannard (Sottoripa Poesie genovesi, a cura di Massimo Bacigalupo, fotografie di Martina Bacigalupo, il canneto editore, e 13,00), che ben si distingue da chi lo ha preceduto. Intanto la sua Genova è vista con gli occhi di un ventiduenne che vi càpita (nel 1984) per farvi il lettore d’inglese, ovviamente con pochi quattrini in tasca e perciò accasato nel centro storico («cercavo la zona più miserabile / della città, sicché affittai una stanza / a Sottoripa»), dove, vedi le coincidenze, andò a vivere circa un secolo prima un altro giovane venuto a Genova per frequentare l’Università: Marinetti. Ma nulla di futurista in Stannard, semmai qualcosa di scapigliato e di irriverente, tanto da parodiare Caproni, sia scrivendo con Città di angeli malefici una sua versione della celebre Litania, sia ironizzando su L’ascensore («quando mi sarò deciso di andarci in paradiso ci andrò con l’ascensore di Castelletto») con queste parole: «Quando andrò all’inferno / prenderò la funicolare di Sant’Anna».
La città raccontata da Stannard nelle sue cinque sillogi inglesi (2001-2016) e ora in questo elegante (e finemente illustrato) volumetto bilingue è prevalentemente circoscritta ai «carruggi» («I cani dormivano nei carruggi / e nessuno li avrebbe svegliati / con un bacio»), nei suoi ambienti emblematici come quel Caffè degli Specchi già ritratto da Campana o in vico Casana o in via Mascherona o in vico Angeli, ma anche con il piacere di una passeggiata in via Balbi «tra palazzi di gloria e virtù eterna», con un salto «all’ultimo piano di una casa altissima» verso villa Gruber dove «a volte i pappagalli più improbabili si posavano sui davanzali» per ridiscendere al mare, a San Giuliano (che pure all’inizio del Novecento aveva ispirato Guido Gozzano), dove «c’è un vecchio bar e una baracca / e qualche tavolo e poco altro / di elegante sulla spiaggia». Genova presentata in piccoli episodi autobiografici, in un intreccio costante di vicende pubbliche e private, con il tono minimalista («Un piattino di fritto misto. / Me ne dai un po’?») e scanzonato («Ero il tuo anglosassone sbronzo / nel tuo bel labirinto italiano / e quando stavo seduto sulla tua soglia di marmo / mi hai dato un ceffone e un bacio»), di chi dichiara sin troppo esplicitamente che i suoi versi non hanno pretese.
Epperò scanzonato ha la sua origine da «canto» e allora se mettiamo insieme questi testi ci accorgiamo di avere sotto gli occhi un vivace e articolato canzoniere, ravvivato da ironia e paradossi con un abilissimo tocco nel trasformare luoghi senza storia in luoghi fondamentali della propria storia, che è la storia di un giovane che alterna un divertito tono quasi goliardico («Tu eri scesa al mercato del pesce / a prendere un polpo, / poi lo raschiavi e cucinavi. / Dovevo mangiare, / il polpo mi gocciolava dal mento») con le grandi gioie («E più tardi dopo il trasloco in un altro quartiere / ci trovammo a camminare tra mucchi di arance, / che erano qua, erano là e chissà, / e mi hai detto: Sai, avrò un baby») e con la disperazione delle delusioni più nere, come quella per un matrimonio naufragato: «Dopo anni di silenzio / la mia ex moglie mi manda / un salame per posta».
Un canzoniere godibile e del tutto unico, nelle cui pieghe, tra vicoli e spazi aperti verso il mare (nelle felici escursioni verso Levante, dalla Rapallo montaliana dove «prenderò un caffè con Eusebio», a Bogliasco sulla cui spiaggia il poeta trova «tappi, tappi, tappi, / sassi grigi e anche rossi più piccoli / alghe secche, pattume soprattutto e / qualcosa che una volta stava appeso a un albero / Ah sì, anche un paio di labbra»), tra surreale e normale, Stannard ritrae tutto il mondo interiore di una generazione che vuole vivere con passione il suo tempo, viaggiare e amare, conoscere e riflettere, sbagliare e rinascere: «Amore, hanno sparso luci d’oro sulla nostra piazza… Noi li spiavamo, nudi e infoiati. / Torna a letto, hai detto. / Allora mi accorsi che non avevamo un letto».