Se è ancora attuale lo stato di diritto e se –come temono politologi illustri – non è ancora tornato in auge il libro della giungla, allora la concentrazione in un’unica compagine con La Stampa, Il Secolo XIX e il gruppo Espresso-Repubblica non si può fare.

Supera, infatti, il limite del 20% (con circa il 23%) della tiratura complessiva previsto dall’articolo 3 della legge 67 del 1987, che a sua volta riprendeva i tetti della riforma-madre dell’editoria: la legge 416 del 1981, di fatto l’unico testo antitrust in vigore, dato che la vicenda radiotelevisiva è finita nel tragicomico meccanismo di rilevazione del Sic (l’incalcolabile sistema integrato delle comunicazioni).

Quella piccola regola è resistita persino all’era berlusconiana, essendosi interessato l’ex cavaliere solo al tema degli incroci tra stampa e televisione. Quando sognava il Corriere della Sera e chissà se ora la tentazione non gli stia tornando, visto che il blasonato giornale milanese sembra adesso un orfanello.

Ecco, allora, la prima urgenza. Le autorità competenti, a partire dall’Agcom che ha diretta titolarità nella tutela del pluralismo, devono intervenire ad horas. Altrimenti ci arrabbiamo, come il noto film. Se no, che ci stanno a fare? Diversi dei commenti sul groviglio societario di questi giorni hanno messo in secondo piano il banale rispetto della già debole previsione dei nostri codici.

E’ interessante, certo, buttare la palla nell’altissima tribuna dei mutamenti socio-antropologici. Tuttavia, se con la macchina superi la velocità consentita, il vigile ti fa la multa e non serve parlargli del tempo digitale. Atti necessari, non discrezionali. Vedremo a che punto di cottura sta la vicenda italiana.

Veniamo alla sostanza. La società Itedi è incorporata da quella di De Benedetti. La Exor dell’erede Agnelli John Elkann avrà, a partire dal 2017, una quota minore nella nuova holding come pure Carlo Perrone, mentre la Fca di Marchionne annuncia l’uscita da Rcs Mediagroup.

L’abbandono dell’editoria da parte della Fiat viene stigmatizzato con parole assai nette dal comitato di redazione del Corriere della Sera: «Finita la stagione dei dividendi, ora che lo sfascio finanziario è compiuto, e che il Corriere è lanciato in un progetto editoriale coraggioso….la famiglia Agnelli saluta e se ne va a rafforzare il principale concorrente». Come ampiamente riportato da il manifesto. E sì, perché nelle rudi determinazioni di Marchionne non c’è spazio per i giornali, figli di un’altra epoca.

La carta stampata è stata decisiva nella formazione del clima d’opinione favorevole alla stagione della grande manifattura fordista, costituendone anzi un punto di qualità. Tant’è che i “Comprati e venduti” raccontati dal primo Giampaolo Pansa erano dentro gli ingranaggi del potere, costituendone l’avamposto e l’altoparlante colto.

Il libro uscì nel 1977, e infatti l’intero decennio successivo fu segnato dalla concentrazione, nei giornali e –prepotentemente- nella televisione commerciale. Era la fase ancora ascendente del settore, prima che l’ingresso della rete e le culture di Internet cominciassero a cambiare l’ordine degli addendi. Allora ci si concentrava per aumentare il potere tra i poteri, mentre nella stagione attuale ci si concentra per non perderne troppo. Di un potere via via reso pallido dagli eventi mediatici e senza molte prospettive per il futuro.

Hanno ragione le organizzazioni sindacali e la federazione della stampa a chiedere immediati confronti sulle previsioni occupazionali. Prima che le crepe diventino una frana incontenibile. Insomma, trust difensivi, improbabili trincee contro i “barbari” dell’on line. Peccato che non si tratti di accidenti transeunti, essendo blog e testate digitali l’avamposto del capitalismo cognitivo: il nuovo impero dell’accumulazione.

Purtroppo ciò avviene non sotto l’egida dello spirito del progresso, bensì nella più cupa parabola dell’oligopolio in salsa liberista. Ma questa è la realtà e si darebbe l’ultimo colpo alla pur nobilissima carta stampata se si eludessero –esorcizzandoli- i nodi brutali che stanno venendo al pettine.

Gli avvenimenti in corso non sono la mera espressione di una crisi limitata, bensì l’anticipazione di una tendenza fortissima se non inesorabile.

Sarebbe cosa buona e giusta occuparsene seriamente, magari attraverso un appuntamento di concreta riflessione, “Stati generali dell’editoria“, come fu fatto in Francia qualche anno or sono. O almeno come sta avvenendo nel dibattito avviato da alcune delle principali testate in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. Insomma, se è vero come diceva Keynes che nel lungo periodo saremo tutti morti, si concepisca un attento governo della fase di transizione, affinché il definitivo sbarco sulle rive del continente digitale non divenga una pura conta dei morti e dei feriti.

E’ il caso di parlare di intervento pubblico? Certo che sì, ma nel senso dello “stato innovatore” di Mariana Mazzucato, non nella versione antica dell’assistenzialismo. O si pensa davvero al quotidiano unico della nazione? Del resto, persino simbolicamente, il Corsera è il sintomo della salute della borghesia italiana.

Se l’azionariato così indebolito non troverà forza e soluzioni, l’effetto domino diverrà veloce e incalzante. E con le telecomunicazioni che non parlano quasi più in italiano, la Rai nel limbo e l’industria culturale debole o pure concentrata con “Mondazzoli”, il crepuscolo si avvicina.

Per commentare con il sonoro il terribile film in corso è appropriata, dunque, la messa da requiem, non la cavalcata delle valchirie. Peccato mortale.

Lo stesso nonno Agnelli ne avrebbe sofferto. Per non dire di Carlo Caracciolo. O di Mario Lenzi, che si inventò il mosaico locale. O di Giovannini. O di Murialdi. Proprio per questo, almeno si seguano le regole e si difendano i diritti.

Non ci si illuda: nella giungla ci sono i giganti veri.