Sono entrati negli uffici di Sendika.org alle 5.45 di ieri, all’alba. Hanno confiscato un hard disk e un cellulare e poi hanno portato via in manette il direttore, Ali Ergin Demirhan. A pochi giorni dal referendum costituzionale chi dà voce ai sospetti di brogli si trova alla porta la polizia.

È il caso dell’agenzia di sinistra Sendika, specializzata nella copertura di attività sindacali e movimenti dei lavoratori e non nuova ad attacchi governativi nei suoi 16 anni di attività, tutti finanziati con donazioni private e lavoro volontario.

Negli ultimi 18 mesi, il sito è stato bloccato 31 volte, 17 volte nelle due settimane precedenti il voto di domenica 16 aprile.

Prima di essere trascinato nella stazione di polizia di Esenler, Ali Ergin Demirhan è riuscito ad inviare un paio di tweet con cui ha raccontato in diretta il raid contro la sede dell’agenzia per aver commesso il crimine «di descrivere la vittoria del sì come illegittima».

Ma, ha aggiunto, «milioni di persone sanno qual è il vero risultato». L’accusa ufficiale è più articolata, ovviamente: secondo la polizia, il direttore stava «organizzando proteste sui social media tentando di dipingere l’esito del referendum come illegittimo e incitando la gente a insultare i dipendenti pubblici».

Nuova Turchia, nuovi reati: esprimere opinioni sulla legalità del voto è un atto criminale. Mercoledì 39 persone sono state arrestate per aver espresso dubbi sulla validità del processo elettorale, manifestandoli scendendo in piazza.

Proprio mercoledì Ali Ergin Demirhan aveva scritto su Sendika: «Perché dovremmo consentire un furto alla luce del sole del referendum che abbiamo vinto? Perché dovremmo permettere l’esistenza del regime di un uomo solo che perpetua se stesso sulla base di un referendum rubato?». Poche ore dopo, è stato arrestato.

Nelle stesse ore finiva in detenzione anche Meltem Oktay, reporter dell’agenzia kurda Diha, chiusa nei mesi scorsi su ordine del governo che ha ritirato la licenza (destino condiviso con 128 siti web, quotidiani, emittenti radio e tv).

I fatti contestati risalgono al 2016 quando coprì l’operazione militare dell’esercito contro la città kurda di Nusaybin, a sud est. Le accuse sono di appartenenza a organizzazione terroristica e disseminazione di propaganda terroristica. Oktay aveva già trascorso alcuni mesi in carcere in attesa del processo.

A novembre la corte penale di Mardin l’ha condannata a due anni e 4 mesi. Era a piede libero in attesa dell’appello: la Corte Suprema ha confermato la sentenza una settimana fa e ieri Oktay è stata ricondotta dietro le sbarre.

Se l’è cavata “solo” con una brutale perquisizione il fotografo Abdurrahman Gök. La polizia è entrata nella sua casa a Diyarbakir ieri mattina. Durante il Newroz di quest’anno aveva catturato il momento in cui lo studente Kemal Kurkut veniva assassinato dalla polizia nella città kurda.

Colpito alle spalle mentre scappava. Per i poliziotti un atto dovuto: il giovane, dicono, sosteneva di avere una bomba nella borsa. Ma nelle foto scattate da Gök, Kurkut è a torso nudo e non ha con sé borse. Per il partito di sinistra Hdp si è trattato di un’esecuzione extragiudiziale, mentre il Chp ha chiesto spiegazioni ufficiali al primo ministro Yildirim.

La guerra alla stampa continua continua. A tracciare gli ulteriori ed ennesimi limiti dell’informazione libera, già massacrata da anni di censure e purghe, è il presidente Erdogan che ieri è tornato sulla decisione della Commissione elettorale di rigettare il ricorso delle opposizioni sull’annullamento del referendum: «La questione è chiusa». Chi ne parla, come Sendika, ne pagherà le conseguenze, verrebbe da aggiungere.

Alle opposizioni, Hdp e Chp, non basta e promettono battaglia. Come i migliaia di cittadini che ieri, per la quinta sera di seguito, hanno protestato a Ankara, Istanbul, Smirne, Mersin, Antalia.

Da parte loro le opposizioni parlamentari proseguono nelle indagini indipendenti sui brogli elettorali, nell’intenzione di rivolgersi a sfere più alte di giudizio per un riconteggio.

Mercoledì in un’intervista al quotidiano tedesco Heilbronner Stimme, è stato il direttore dell’Osce Link a proporre di ricontare le schede, per poi predire «conseguenze politiche internazionali» se Erdogan insisterà nel non voler valutare le raccomandazioni degli osservatori europei.

A stretto giro arriva la risposta del Ministero della Giustizia: né la Corte suprema né la Corte Europea per i diritti umani hanno la giurisdizione per intervenire. Di certo il governo farà sì che un’eventuale sentenza a favore del No non trovi alcuna applicazione interna.

E se l’Europa prova a mettere dei paletti (Ankara fuori dal Consiglio d’Europa se reintrodurrà la pena di morte, ha detto ieri il segretario generale Jagland), Erdogan guarda agli Stati uniti: ieri ha fatto sapere che incontrerà Trump alla Casa bianca il 16 maggio.