Peter Segal… chi è costui?, andava ruminando cogitabondo il cinefilo preso alla sprovvista dalla notizia che un tale Carneade avrebbe diretto Sylvester Stallone e Robert De Niro in un film ambientato nel mondo della boxe. La filmografia di Segal non offre lumi in proposito, considerato che quanto vi figura è trascurabile e al sicuro da qualsiasi rischio di rivalutazione. In questo senso Il grande match è un film per il quale la politica degli autori può essere sostituita senza problemi dalla politica degli attori. Sylvester Stallone, da sempre, è il regista di se stesso. Anche quando dietro la macchina c’è Renny Harlin, Simon West o Stephen Kay. Tutti i film che lo vedono protagonista, anche quelli oggettivamente meno riusciti, rispondono a un’economia e a una gestione dell’immagine che Stallone ha sapientemente amministrato nel corso degli alti e bassi di una carriera esemplare iniziata ben 44 anni fa (e che ormai assomiglia straordinariamente a quella di John Wayne, se si riflette su come la sua immagine ha impattato sul cinema statunitense e di conseguenza sull’immaginario collettivo).

Rispetto a Burt Reynolds e Charles Bronson, due icone action degli anni Settanta, Stallone ha sempre dialogato con il tempo che passa e le mutazioni che questo scorrere imponevano al suo corpo. Autentico corpo in perenne mutazione, Stallone è una macchina mitopoietica che racconta sostanzialmente una sola storia (e non è un difetto): la storia dell’ascesa e della caduta, della lealtà e dell’onore, della colpa e della pena. Il grande match, che sulla carta ha tutta l’aria di un film di Robert Aldrich (come non pensare alla malinconia di California Dolls?) o di Walter Hill, in assenza di un regista degno di questo nome, poggia tutto sulle spalle di Stallone e dei magnifici attori che lo affiancano nell’impresa. Primo un geniale Robert De Niro, qui alla sua migliore prova attoriale da molti anni a questa parte, e da un Alan Arkin sornione e cialtrone che accoglie su di sé i ruoli che furono di Burgess Meredith e Burt Young in Rocky.

Con grande spregio del pericolo, Stallone rimette mano alla mitologia di Rocky Balboa, pietra angolare della sua persona pubblica, mentre De Niro riprende il ruolo di Jake La Motta, trasformato però in un soddisfatto manager di un ristorante e proprietario di un autosalone. Se Sly riparte da zero, come Rocky, ossia dalla fabbrica, dove i suoi compagni sono licenziati senza troppi complimenti dopo trent’anni di servizio, De Niro è integrato nella catena alimentare della società dello spettacolo. Il figlio del suo ex manager (che assomiglia molto a Don King) vorrebbe che Sly tornasse sul ring per suonarle all’uomo che gli ha preso la moglie e la boxe. Sly, però, da uomo tranquillo, non ne vuole sapere. Gli basta quello che ha. Non c’è bisogno di procedere nel riassunto della sinossi per sapere come finisce ma, ed è qui che sta esattamente la colta sofisticazione popolare di Stallone cineasta e narratore, si sospende l’incredulità dopo i primi minuti di film, ci si abbandona al piacere purissimo del racconto, si ride alle battute a volte scontate e si partecipa felici di un rito collettivo che non ha bisogno di molte motivazioni o giustificazioni per essere celebrato. Lo schema, ancora una volta, è quello di Fuga per la vittoria: ossia a volte è possibile tornare a casa. E vincere. Segal, che nel mondo di Aldrich o Hill non durerebbe un secondo, si gioca la carta della sitcom di periferia, e azzecca persino qualche squarcio di fabbrica, un interno operaio e l’inquadratura della credenza di Stallone piena di scatolame. Per il resto si lascia guidare per mano da Sly che come regista non è secondo a nessuno.

In termini musicali, Il grande match è come un disco di Southside Johnny o di Dion DiMucci. La musica è sempre la solita, ma ciò che conta è la convinzione dell’interprete. D’altronde sarebbe un gioco troppo facile fare le pulci critiche al film mentre è proprio la sua assoluta inattualità, la ragion d’essere principale di un’operazione che conta solo sulle facce e i corpi dei protagonisti per esistere. Il grande match è cinema popolare allo stato puro. Certo, si potrebbe obiettare che una volta questi racconti erano minoritari rispetto all’industria culturale mentre oggi Il grande match proviene dal cuore dello show business e che, per dirla con Daney, la reinvenzione ingenua dello stereotipo è un errore politico. La differenza, in questo caso, è Stallone: divo e corpo politicamente pre-politico. Lui nasce come racconto popolare, proiezione frankcapriana che sorge nel cuore degli anni Settanta, quando l’America osava ancora sognarsi innocente; esorcismo paramnestico anti-Vietnam che non sarebbe riuscito nemmeno a Rambo qualche anno dopo.

Il grande match è un osservatorio privilegiato per continuare a ragionare su un regista e attore in grado di reinventarsi instancabilmente pur restando fondamentalmente fedele a se stesso senza mai ripetersi. Proprio come i grandi e irripetibili divi della Hollywood di una volta, quando i film di John Ford erano i film di John Wayne.