Uno studio del Fmi uscito questa settimana conferma una probabile «stagnazione secolare». Già nel titolo si definisce «una nuova realtà» la bassa crescita potenziale. Le ragioni già evidenti prima della crisi, con essa ricevono un’ulteriore spinta. Il declino riflette l’impatto prodotto dall’invecchiamento delle popolazioni coniugato con modesta produttività del capitale e con una crescente tendenza alla deflazione. Ciò darebbe prevedibilmente adito a un lungo periodo di contenuta crescita occupazionale e anche di modesti tassi di crescita. La novità consiste nel fatto che in questa situazione il Fondo vede convergere i destini delle economie avanzate con quelli dei paesi emergenti. Questi ultimi indubbiamente caratterizzati da livelli di crescita maggiori, ma anch’essi in corso di contenimento e per le medesime ragioni. Particolarmente significativo sarebbe l’impatto demografico sui colossi emergenti, come anche il fatto che in molti di essi l’indebitamento delle imprese aumenti più velocemente della produzione. In un contesto di economia fondata sul debito poi il tendenziale contenimento dei prezzi non solo favorisce il differimento degli acquisti e dei consumi, ma rende sensibilmente più onerosi proprio i costi dei debiti, pubblici o privati.

Per il prossimo periodo il Fondo si attende una crescita stazionaria per i paesi avanzati, paragonabile a quella realizzata nel periodo della crisi, e minore rispetto al passato per quelli emergenti. Questa combinazione tra stagnazione e contenimento della crescita conduce a un panorama globale poco rassicurante. E per il Fondo nell’immediato futuro non vi sarà neppure la spinta dovuta all’effetto delle innovazioni tecnologiche intervenuta a cavallo del secondo millennio, come a dire che neppure i soliti richiami (che per altro lo stesso Fmi richiama) sulla necessità di innovare e fare investimenti in ricerca e sviluppo possono rappresentare una soluzione di ampio respiro. Insomma, persino un soggetto architrave della globalizzazione annuncia scenari foschi. Perciò i dibattiti sul come far tornare la crescita appaiono, oltre che infiniti, inconcludenti. Ogni corrente di pensiero economico avanza le proprie ricette. Per far tornare la ripresa ci vorrebbe un taglio delle tasse oppure una politica monetaria espansiva. Poi si arriva alle riforme strutturali che per alcuni si traducono in riforme del mercato del lavoro oppure in privatizzazioni e liberalizzazioni.

C’è poi chi osa aggiungere piani di investimenti pubblici che facciano da volano per un rilancio complessivo degli investimenti. Idee e progetti di fatto applicati perlomeno da alcuni decenni, benché a vario grado e in forma sempre più spuria. La stessa crisi ha contribuito a rimescolare le carte, fino a far sbiadire il confine netto tra politiche economiche di impronta neo-liberista e neo-keynesiana, confermando una volta di più l’estrema duttilità del capitalismo quando è in forse la sua stessa sopravvivenza. Raramente si riflette sui termini sistemici dei problemi economici che abbiamo di fronte. Riassumendo ci si potrebbe chiedere, visto che tutte le ricette finora adottate non hanno condotto alla crescita, perché una loro assunzione in dosi più massicce dovrebbe portare risultati più significativi? Si affaccia l’ipotesi che il quadro stagnante potrebbe essere persino secolare. Negli Usa esiste addirittura una corrente che si definisce new normal, secondo cui questa tendenza sarà appunto la normalità con cui dover fare i conti, ovviamente per salvaguardare i privilegi dominanti. Il problema è come ribaltare tale assunto, evitando che siano i soliti soggetti a pagare il prezzo dello stallo, e come iniziare a pensare percorsi di fuoriuscita strutturale da un sistema che sembra aver già dato il meglio di sé.