«Fanculo il tuo stage non retribuito». Questo slogan, scritto su un cartello, era uno dei più coloriti al culmine del movimento Occupy. Cartelli simili, impugnati dai giovani che si battono contro gli effetti della crisi finanziaria, respingono con piacevole franchezza il mantra secondo cui oggi dovremmo essere disposti a fare «di più per meno». Versione aggiornata al XXI secolo della famosa risposta di Bartleby ai compiti che il suo capo gli assegnava – «avrei preferenza di no» –, l’invettiva dello stagista esprime la frustrazione che serpeggia tra i giovani, alle prese con l’aumento dei debiti studenteschi e la riduzione delle prospettive di impiego. Se un lavoro dignitoso e a tempo pieno sta diventando sempre più difficile da trovare, non si può dire altrettanto per gli stage, siano essi poco o affatto retribuiti. I media hanno dedicato agli stage moltissima attenzione dopo che Ross Perlin ha pubblicato il suo saggio Intern Nation: How to Earn Nothing and Learn Little in the Brave New Economy.

Minore attenzione ha ricevuto la crescente mobilitazione contro il fenomeno dello sfruttamento degli stagisti e le condizioni culturali che lo rendono possibile. Dalle proteste di piazza alle campagne online, l’attivismo emergente sul tema degli stage rientra nel tentativo più ampio da parte di nuovi soggetti di riformare le politiche del lavoro per tempi di precariato. Prendiamo ad esempio la Canadian Intern Association. Fondata a maggio 2012, l’associazione è forse il primo gruppo che si sta organizzando per affrontare il tema degli stage non pagati o sottopagati in Canada. I ventenni che partecipano alle sue assemblee sono trascinati dall’impeto della protesta contro gli stage. «Non avevo in programma una cosa così da tanto tempo» racconta la presidente dell’associazione, Claire Seaborn. L’idea di fondare un gruppo per i diritti degli stagisti le è venuta in mente mentre discuteva di stage con amici davanti a una birra. «C’è stato talmente tanto interesse verso l’associazione che ho detto: ok, penso che dovremmo farlo».

E ci sono tantissime ragioni per proseguire. Secondo la mentalità dominante, gli stage sono ritenuti vantaggiosi per tutti: i datori di lavoro possono mettere alla prova le potenziali reclute e affidare loro alcuni compiti banali; gli stagisti possono vedere in prospettiva un’occupazione, fare una preziosa esperienza di lavoro, e stringere i rapporti necessari a lanciare una carriera. Questa logica tuttavia ignora le relazioni di potere che sottostanno al sistema degli stage. Una delle molte criticità evidenziate è che spesso agli stagisti non retribuiti viene chiesto di eseguire il lavoro che prima veniva assegnato al personale retribuito dopo l’assunzione. Inoltre gli stagisti non hanno accesso alle tutele e ai benefit di cui godono i lavoratori tradizionali.

Gli stage possono aiutare a mettere il proverbiale piede dentro la porta, ma non offrono garanzie: una indagine del 2012 condotta negli Usa dalla National Association of Colleges and Employers rivela che solo il 37% degli stagisti non retribuiti hanno ricevuto offerte di lavoro. Cosa ancor più importante, poche persone possono permettersi di lavorare gratis. Se fare uno stage non retribuito continuerà ad essere un passaggio obbligato sulla traballante scala della carriera di oggi, le professioni basate su questo sistema saranno trasformate in modo da favorire i più benestanti. Oltre che dai genitori (tra i quali non tutti possono accendere una seconda ipoteca per finanziare un figlio che a ventidue anni lavora gratis in una città costosa), i mezzi di sostentamento provengono da prestiti personali o da lavori part-time.

Gli stage sono un esempio non soltanto di disuguaglianza di classe, ma anche di discriminazione in base alla età. «Paga i tuoi debiti» è uno stanco cliché, piuttosto che un’argomentazione etica, sul perché debba essere accettabile che i giovani donino il loro lavoro. Una volta diventati stagisti, è difficile prendere posizione contro il proprio sfruttamento. Lo stage ha dentro di sé la consegna del silenzio. Per quanto sgradevole possa essere il loro quasi-lavoro, pochi stagisti sarebbero disposti a mettere a repentaglio il proprio obiettivo (dalla laurea al full-time, una referenza brillante) o annientare la propria buona reputazione ribellandosi. Gli stagisti non sono solo ridotti al silenzio, sono anche invisibili. Nonostante la loro condizione sia sempre più controversa, non esiste alcuna stima ufficiale sulla popolazione degli stagisti.

Andrew Langille, un avvocato del lavoro di Toronto e acceso critico degli stage non retribuiti, stima che in Canada gli stagisti siano circa 200.000. Ma è una manciata di stagisti celebri ad attrarre maggiormente l’attenzione: Kanye West è stato stagista presso la griffe di moda italiana Fendi; Lady Gaga presso lo stilista irlandese di cappelli Philip Treacy; Lauren Conrad di The Hills presso Teen Vogue. È improbabile che un cast così scintillante possa scoraggiare le domande per diventare stagisti nelle industrie culturali e dei media, che, accusano i critici, sono tra i maggiori responsabili dell’ingiustizia degli stage. Ad un recente programma radiofonico della Cbc, una ex stagista dell’industria musicale ha raccontato che i suoi compiti includevano «la pulizia dei bagni». È una immagine che colpisce l’attenzione e sfida il mito sempre più inutile che gli stagisti si limitino a portare il caffè ai superiori.

Contraddice anche quanto sostenuto dalle compagnie, secondo cui gli stagisti riceverebbero soprattutto addestramento per la loro carriera e perciò non meriterebbero un salario. Essi eseguono una vasta gamma di mansioni per le quali normalmente le compagnie pagano i lavoratori. Una ricerca condotta dalla U.K. National Union of Journalists ha rivelato che quasi l’80% degli stagisti in campo giornalistico che hanno pubblicato dei contenuti nel corso della loro esperienza lavorativa non erano stati retribuiti. Quando stagisti non retribuiti, con il loro lavoro, generano profitti nelle arti, nei media e nella cultura, le corporations fanno cassa sulle passioni dei giovani lavoratori. «Solo perché a qualcuno piace il design, questo non significa che non debba essere pagato» dice Seaborn.

Gli stagisti al contrattacco

Lavorare gratis per pulire un orinatoio è un grido remoto dal mondo incantato della «classe creativa». Gli stagisti più disincantati stanno passando al contrattacco. Negli ultimi anni, in tutto il mondo sono sorti gruppi che si battono contro il loro sfruttamento: ad esempio, Intern Aware in Gran Bretagna, Intern Labor Rights negli Usa, Génération Précaire in Francia, Repubblica degli Stagisti in Italia, Hague Interns Association in Olanda. Stagisti presenti e passati, e i loro alleati, seguono le questioni che li riguardano online attraverso gli account Twitter, le pagine Facebook e blog come i due blog canadesi Internsheep e Youth and Work. Gli attivisti denunciano un tasso di disoccupazione giovanile galoppante, un mercato del lavoro super-competitivo che spinge coloro che cercano un impiego a competere gli uni con gli altri, e la tendenza degli stage gratuiti a rimpiazzare le nuove assunzioni.

Che gli stagisti presenti e passati stiano alzando la voce riflette anche uno spostamento politico. «Veniamo da un periodo di liberismo sfrenato e di riduzione dello stato sociale» spiega Langille, «e le persone stanno imparando a combattere battaglie per il lavoro». Occupy ne è un esempio evidente. «C’è una generazione che sta entrando nella forza lavoro, una generazione che non ne aveva mai fatto parte prima» aggiunge Langille. «E non penso che a questi giovani piaccia quello che vedono».

Una tattica che gli attivisti stanno utilizzando è quella del ricorso alle controversie legali. Un problema ricorrente è che gli stagisti vengono classificati in modo scorretto: i datori di lavoro definiscono una persona «stagista» ma le assegnano mansioni altrimenti effettuate da un lavoratore retribuito. Le compagnie americane del mondo dell’informazione dedite a questa pratica sono ora sotto i riflettori perché sono state chiamate in giudizio in alcune class-action, ivi comprese le cause contro l’editore di riviste Hearst Corporation e il gruppo Fx Entertainment Group. «Queste cause sono assolutamente necessarie» spiega un militante di Intern Labor Rights, un’organizzazione con sede a New York.

«Quando le compagnie capiranno che sono a rischio i loro profitti, i loro avvocati diranno ‘non potete più farlo’. E ci sarà un’inversione di rotta». Le cause legali hanno riscosso un certo successo nelle rivendicazioni salariali. Nel Regno Unito, la National Union of Journalists, attraverso la sua campagna «Cashback for Interns», ha aiutato un ventunenne ex stagista non retribuito a vincere una causa nel 2011. Le sue giornate di otto ore includevano il compito assolutamente ironico di «assumere nuovi stagisti». Se i costi da sostenere per le spese legali e gli accordi extragiudiziali minacciassero di superare il costo della paga minima agli stagisti, gli stagisti dell’industria mediatica potrebbe arrivare a una soluzione in un’aula di tribunale.

Non sorprende dunque che la Canadian Intern Association sia stata fondata da uno studente di giurisprudenza e che i giovani che lavorano nell’industria dei media abbiano avuto una forte presenza nelle riunioni del gruppo. In Ontario, dove l’associazione ha la sua sede, non ci sono normative riguardanti gli stage non retribuiti in sé. Tuttavia l’Employment Standards Act di quella provincia stabilisce dei criteri cui le compagnie debbono attenersi nell’utilizzo degli stagisti. La norma afferma esplicitamente che gli stage devono beneficiare gli stagisti, e non i datori di lavoro. “Se i criteri non vengono soddisfatti, spiega Seaborn, allora lo stagista dovrebbe ricevere un salario minimo». Nonostante questo, molti stagisti preferiscono fare una buona impressione piuttosto che consultare le norme sul lavoro.

La Canadian Intern Association vuole «creare consapevolezza» sulle norme esistenti e «far rispettare la legge». Tale mandato produce lo scenario alquanto paradossale di un gruppo di volontari impegnati in un lavoro che spetterebbe ai dipendenti pubblici, ampliando ancora di più la gamma delle mansioni affidate agli stagisti. Seaborn definisce la Canadian Intern Association un gruppo di pressione che vede i datori di lavoro come potenziali partner nello sforzo di migliorare gli stage. Vuole che, alla fine, l’associazione predisponga una guida delle «migliori pratiche» ed offra un «marchio di conformità» alle compagnie che si comportano correttamente. Sebbene eviti strategicamente un atteggiamento di contrapposizione, la Canadian Intern Association non è antitetica allo spirito del sindacato.

Dopo tutto, Seaborn spiega che il progetto è scaturito dall’idea di «organizzare un gruppo di persone che attualmente non sono organizzate». E organizzare gli stagisti è una sfida estremamente difficile, anche perché sono dispersi in tanti posti di lavoro diversi e hanno posizioni mutevoli. La scuola è comunque un luogo in cui gli stagisti passati, presenti e futuri si aggregano in gran numero. I college e le università stanno diventando luoghi strategici per organizzarsi. I campus costituiscono un collegamento istituzionale decisivo nella catena del lavoro non retribuito: i career centres pubblicizzano dubbie posizioni non retribuite presso compagnie for-profit, i programmi accademici fanno pagare le tasse di iscrizione per crediti guadagnati attraverso posizioni non retribuite, e gli insegnanti, come dice un attivista di Intern Labor Rights, consigliano ai loro studenti: «Oh, quello che ti serve durante l’estate è uno stage».

È dunque incoraggiante che la Canadian Intern Association abbia ricevuto una formale espressione di sostegno dall’esecutivo dell’RSU (Ryerson Students’ Union). Melissa Palermo, vicepresidente del settore istruzione dell’RSU, vede la collaborazione come una naturale alleanza giacché il lavoro di un sindacato studentesco è «difendere gli studenti» che devono affrontare una triplice sfida: l’aumento delle tasse di iscrizione, l’aumento dell’indebitamento e l’aumento della disoccupazione. Come osserva Melissa Palermo, la questione degli stagisti è particolarmente acuta per gli studenti dei corsi di comunicazione, belle arti e design. A livello provinciale, la Federazione Canadese degli Studenti dell’Ontario ha approvato in agosto una mozione che condannava gli stage non retribuiti di sfruttamento.

Nominare e denunciare

L’attivismo degli stagisti reca i segni delle condizioni precarie in cui essi si trovano in vari modi. Gli attivisti sottolineano l’importanza di condividere le esperienze personali di sfruttamento, ma l’enfasi sulla denuncia va di pari passo con l’esigenza di preservare l’anonimato degli stagisti. Le maschere indossate dai membri del Carrotworkers’ Collective di Londra, in Inghilterra, evidenziano questo punto. Come dice un partecipante di Intern Labor Rights, «il rischio per la reputazione è altissimo per chi denuncia». Anche se sotto il mantello dell’anonimato, molti gruppi scelgono un approccio conflittuale, come il «nominare e denunciare» le compagnie che pubblicizzano online stage non retribuiti. Oltre ad aver prodotto Surviving Internships: A Counter Guide to Free Labour in the Arts (Sopravvivere agli stage.

Una contro-guida al lavoro libero nelle arti), il Carrotworkers’ Collective è sceso in piazza per protestare contro l’austerità. Il gruppo ha partecipato a dimostrazioni in cui faceva penzolare sculture a forma di carota – la «carota» in questione è la promessa di autonomia nel lavoro creativo – e portava cartelli con messaggi come «stage = infinito lavoro gratuito». Nel 2013 l’Intern Aware Street Team ha percorso le strade di Londra con flashmobs e l’utilizzo di stunts fuori delle sedi di imprese che utilizzano gli stagisti senza pagarli. Intern Labor Rights, un sottogruppo di Arts & Labor, che è scaturito da Occupy Wall Street, ha proposto un’ingiunzione etica diretta – «Pagate i vostri stagisti!» – che è stata stampata sulle T-shirts. Nel suo primo intervento, il gruppo ha inviato una lettera alla New York Foundation for the Arts chiedendole di smetterla di postare, sulla sua bacheca degli annunci di lavoro, stage non retribuiti di compagnie for-profit. Quest’estate ha portato il suo messaggio in piazza, scendendo a Times Square per parlare con i newyorkesi degli stage non retribuiti nelle industrie creative e non solo.

Canarini in miniera

Secondo un membro di Intern Labor Rights, la tendenza tra i giovani che aspirano a diventare lavoratori della cultura a svalutare il proprio lavoro rappresenta un ostacolo alla crescita della mobilitazione. «Questa generazione non lo considera neanche sfruttamento», spiega. «Non capisco come una quantità di lavoratori volenterosi, intelligenti e altamente istruiti possano entrare in un ufficio o su un set cinematografico o in una galleria, contribuire con tutta quella conoscenza, energia ed entusiasmo ad una organizzazione e al suo successo, e poi pensare di non avere niente da dare perché non lavorano nel settore da cinque anni… Tutta quest’idea che il loro contributo non significhi niente, che non abbia valore, l’hanno completamente interiorizzata. È terribile da vedere».

Ciò rende ancora più suggestivo lo slancio di attivismo degli stagisti, specialmente in un momento in cui creare collegamenti su LinkedIn è spesso la cosa che più si avvicina ad una azione collettiva nel mercato del lavoro. Questi gruppi sorgono dalla presa di coscienza che non sono i fallimenti personali, ma forze sistemiche a rendere così inafferrabile la possibilità di sistemiche a rendere così inafferrabile la possibilità di mantenersi in modo significativo e sostenibile. E che se vuoi cambiare le cose, non puoi farlo da solo. Queste iniziative aggirano in gran parte i vecchi sindacati, che hanno avuto difficoltà o mancanza di interesse a coinvolgere i giovani. I gruppi guidati dai giovani stanno facendo rivivere l’interesse per questioni che sono al cuore del movimento dei lavoratori: lo sfruttamento da parte delle corporations, la giustizia economica, la previdenza sociale.

Soprattutto, stanno sperimentando modi per mobilitare e sostenere le persone oltre la base sempre più ristretta dei sindacati classici. Una partnership tra il Tuc (Trades Union Congress) e il Nus (Nation Union of Students) nel Regno Unito per affrontare le questioni dei diritti degli stagisti in Gran Bretagna è un segno promettente di collaborazione. In febbraio il Tuc, che rappresenta 54 sindacati ed oltre sei milioni di lavoratori, si è alleato con il Nus lanciando una campagna della durata di un anno per chiedere un equo trattamento degli stagisti. Il Tuc ha sviluppato una app gratuita per smartphone che informa gli utenti sui diritti legali degli stagisti, fornisce aggiornamenti sui social media da gruppi di pressione, e aiuta a calcolare i salari dovuti. La battaglia degli stagisti è un passo in avanti per la politica del lavoro.

Se questi gruppi riusciranno a costringere i governi a imporre con maggior rigore il rispetto delle norme esistenti, o se denunceranno il comportamento di singole aziende spingendole a implementare stage «etici», un progresso significativo sarà stato fatto. Ma sarà anche stata persa l’opportunità di nominare, e di combattere, un problema più ampio. Gli stage non retribuiti non sono una questione isolata. Sono solo una delle molte forme di lavoro gratuito fiorente nei settori più celebrati delle industrie creative: il giornalismo partecipativo fornisce fotografie, articoli e commenti a grandi network privati; chi partecipa gratuitamente ai reality prende il posto degli attori retribuiti in programmi con un copione; e scrittori professionisti lavorano gratuitamente per grandi corporations. Il combinato disposto di stage seriali e zero salari è la svalutazione del lavoro, la depressione dei salari in tutto il mercato del lavoro, e l’assuefazione di una generazione di lavoratori indebitati a passare da un lavoro occasionale all’altro con poche aspettative dei loro datori di lavoro.
Il lavoro non retribuito è emerso come una questione calda per gli attivisti. Consideriamo una manciata di esempi negli Stati Uniti. Il gruppo W.A.G.E. (Working Artists and the Greater Economy) si sta battendo affinché gli artisti siano ricompensati, quando espongono le loro opere nelle gallerie, con qualcosa di più della semplice «esposizione». La Model Alliance sta richiamando l’attenzione sull’uso, invalso nell’industria della moda, di pagare le modelle con i vestiti. Paga l’autore!, una campagna organizzata da National Writers Union, sta mettendo in discussione il fatto che gli autori non vengano pagati su siti come l’Huffington Post. La Freelancers Union sta spingendo per una Unpaid Wages Bill per aiutare i lavoratori freelance i cui clienti non pagano. I tempi stanno diventando maturi per una campagna trasversale contro il fenomeno del lavoro non retribuito che include gli stagisti, ma è più vasto. Molto più vasto. Sotto il capitalismo, tutti i lavoratori subiscono il problema del lavoro non retribuito, ossia quelle parti dei nostri giorni, delle nostre settimane o vite che generano valore economico ma per cui non riceviamo in cambio alcun compenso economico. Perciò, anche se gli stagisti sono canarini nella miniera dell’economia dell’austerity, il messaggio degli stagisti attivisti, in sintesi, consiste al 99% in questo: Non ti svendere.

*Enda, Nicole, and Greig collaborano a un progetto di ricerca sulle politiche del lavoro nelle industrie creative – www.culturalworkersorganize.org

Greig de Peuter insegna presso il dipartimento di studi sulla comunicazione della Wilfrid Laurier University.
Nicole Cohen è assistant professor presso l’Institute of Communication, Culture and Information Technology, University of Toronto Mississauga.
Enda Brophy insegna presso la School of Communication, Simon Fraser University.

L’articolo è stato pubblicato su Action il 9 novembre 2012
Traduzione di Marina Impallomeni