All’inizio di questa settimana Walter Riolfi sul Corriere affermava che ora l’economia è davvero a rischio stagflazione, cioè quel combinato di stagnazione della crescita e aumento dei prezzi. L’economia europea e statunitense si trovano ad affrontare un corridoio piuttosto stretto. Da una parte l’inflazione dall’altra una crescita fragile che in larga parte era spinta da un effetto rimbalzo dopo il crollo pandemico.

La crescita dei prezzi è stata solo amplificata dalla guerra, ma era iniziata da circa un anno, conseguenza di una sfasatura tra domanda e offerta, da una carenza delle commodities e dall’intasamento delle produzioni, oltre che da una marea montante di moneta immessa nei circuiti finanziari ed economici che hanno finito per produrre una fiammata inflazionistica.

Negli Usa a febbraio ha raggiunto quota 7,9%, una cifra che non si vedeva dal 1982, mentre in Europa la BCE prevede un 7,1% nel 2022 come ipotesi peggiore, mentre una normalizzazione intorno al 2% si avrebbe solo nel 2024. Quanto la guerra contribuirà ad approfondire questa dinamica è oggi poco prevedibile, così come è difficile calcolare gli effetti sulla fragile crescita, ma un impatto evidentemente ci sarà, anche solo in virtù della crescita del costo dell’energia, di alcuni prodotti alimentari e di una instabilità che tenderà a far rinviare consumi ed investimenti.

In questo quadro la FED e la BCE confermeranno i loro piani di tapering (rallentamento del loro intervento), pur diversi nelle tempistiche, cercando di controllare l’inflazione attraverso una politica monetaria meno espansiva? Oppure rivedranno le loro scelte per evitare di aggravare una nuova possibile recessione, ma contribuendo a consolidare un livello ben superiore al 2% d’inflazione nel medio periodo?

Lo stesso dilemma attraverserà le leggi di bilancio e le politiche fiscali. La sensazione è che possa succedere quello che abbiamo già visto dal 2008 a oggi. Avviata l’ipotesi di uscita dalle politiche non convenzionali, un nuovo shock ne determina la ripresa. Negli ultimi quindici anni siamo passati dalla crisi finanziaria a quella dei debiti, per giungere a quella pandemica e ora a quella derivante da una guerra in stile tradizionale che fa esplodere i prezzi delle materie prime. Si dirà che gli ultimi due eventi sono esogeni a una dinamica strettamente economica, e in parte è vero, ma quello che sembra evidente è il quadro di una strutturale instabilità e fragilità economica, combinata a una crisi ambientale e geopolitica che evidenzia i limiti del modello di accumulazione degli ultimi decenni. Oggi si parla nuovamente di protagonismo delle banche centrali, di ulteriore sospensione del Patto di stabilità europeo, ma sarà sufficiente ad evitare la stagflazione?

Oppure alimenterà speculazione finanziaria e un’ulteriore polarizzazione delle ricchezze? Vedremo. Di sicuro c’è l’urgenza di trovare delle soluzioni e quella monetaria appare l’unica immediatamente possibile. La logica è sempre quella di prendere tempo. Il dubbio, però, è se la «toppa monetaria» potrà reggere all’infinito. Le stesse tendenze alla «deglobalizzazione» sono un chiaro segnale di rottura di vecchi equilibri.

Quello che manca è una visione di prospettiva, un disegno che non sia la difesa degli interessi nazionali e la mobilitazione nazionalista dell’opinione pubblica come strumento di tenuta del consenso e della coesione sociale interna. Una visione che, seppur complessa, ipotizzi di sperimentare nuovi modelli economici e non semplicemente di riproporre quello tradizionale con l’aggiunta dell’ennesima dose di moneta e la sospensione di quel poco di conversione energetica prevista dai vari governi. È come se avessimo un’auto spompata in cui si continua a mettere benzina, senza curarsi dei crescenti consumi e della crisi delle prestazioni. Forse sarebbe il caso di cambiare auto o, meglio ancora, iniziare a provare a muoversi con mezzi pubblici, magari innovativi.