L’assalto della Roma capolista al primato europeo di successi in fila (Tottenham, 11 nel 1960/1961) è fallito con il pari contro il Torino. Con la serie A che nella prima tranche ripercorre il copione offerto negli ultimi anni dai principali tornei continentali. Premier League, Bundesliga, Liga: due – tre squadre al vertice che si contendono la fetta più grossa della torta, le altre tra posizioni di rincalzo e la permanenza nella massima categoria.

Questo, sul rettangolo di gioco. Perché a qualche metro di distanza emergono in cifre – significative – le differenze che rendono il torneo italiano lontano dagli standard inglesi e tedeschi. Secondo un rapporto dell’European professional football leagues (Epfl), nella passata stagione sono stati venduti il 58,7% dei biglietti disponibili per le partite di serie A. Con la media di poco più di 23 mila spettatori a ogni fischio d’inizio. Insomma, pienoni e incassi importanti solo per le partite di cartello. Con desolanti vuoti domenicali, certificati anche dalle immagini televisive. Il prodotto calcio, complice crisi economica, in Italia non tira. Se ne discute al bar, sul posto di lavoro, sui social network. Si fa fatica invece quando il tifoso deve separarsi da un po’ di euro per andare in tribuna.

Negli ultimi 15 anni la serie A ha perso il 15% di spettatori. Imbarazzante la distanza con Inghilterra e Germania, i due movimenti calcistici che producono maggiori introiti. La Premier League ha piazzato il 95,3% (media da quasi 36 mila spettatori a partita) del totale dei tagliandi in vendita per le partite della scorsa stagione. Vale a dire stadio quasi esaurito, nonostante i prezzi alti. A seguire, ecco la Bundesliga. Che ha potuto contare oltre 41mila spettatori a gara, mentre leggermente più bassa (91,4%) è la percentuale di biglietti piazzati, tra web e botteghino. Sul terzo gradino del podio c’è la Eredivisie, la massima serie olandese, con l’85,8% di ticket acquistati dai tifosi (poco meno di 20 mila tifosi per gara). La Ligue1, nel primo anno del Paris Saint Germain dei petroldollari, si piazza al quarto posto con il 70,7% dei biglietti venduti nel 2012/2013, seguita dalla Liga (altro torneo in crisi economica, soprattutto per i club medio-piccoli, distanti anni luce, unica eccezione, Atletico Madrid, da numeri e risultati di Barcellona e Real Madrid) con il 64,1%.

Sino alla serie A. Numeri che solidificano le motivazioni del flop italiano, poco ambito dai top player internazionali, con bilanci in rosso e un livello tecnico costantemente in discesa. E che potrebbero andare ancora più giù nel campionato in corso, tra cori razzisti, curve chiuse per episodi di discriminazione territoriale (chiuse quelle di Roma, Lazio, Milan, Inter) che hanno danneggiato gli abbonati. E l’ulteriore spezzatino imposto dalla tv a pagamento, con partite diluite tra sabato e lunedì, con rischio saturazione del telespettatore. Ma questo avviene anche in Inghilterra e Germania, dove sono in costante crescita anche le cifre sulla vendita dei diritti televisivi (+2% delle tessere digitali sottoscritte), mentre in Italia vanno giù (-1%), in attesa di capirci di più sulla cessione dei diritti del triennio 2015-2018. Il nodo resta lo stadio di proprietà.

Che produce dividendi e stimola il flusso di tifosi. Appena uno realizzato a casa nostra, lo Juventus Stadium (non è un caso che i bianconeri fanno segnare spesso il sold out, con il fattore campo determinante anche per il bis in campionato), mentre in Inghilterra sono nove gli impianti che appartengono ai club, appena due in meno in Germania. Dalla Roma al Napoli sino alle milanesi, l’operazione impianto di proprietà ora pare diventata prioritaria. Con colpevole ritardo.