Il via libera del cda di Intesa Sanpaolo al contestato finanziamento di 6,3 miliardi di euro in favore di Fca è arrivato, ieri, senza troppi intoppi. La palla ora passa a Sace, la società del gruppo Cassa depositi e prestiti controllata dal ministero dell’Economia, per la concessione della garanzia pubblica. Ma che succede in Piemonte e a Torino, un tempo culla e regno del Lingotto, quando ancora si chiamava Fiat? Proprio qui, è stato scoperto che l’azienda non ha versato l’Irap – l’imposta regionale sulle attività produttive – dal 2011. La questione è stata sollevata in Consiglio regionale dal capogruppo di Liberi Uguali Verdi, Marco Grimaldi, che ha spiegato di averne avuto la conferma dalla giunta guidata da Alberto Cirio, che ha acquisito la documentazione dell’Agenzia delle entrate relativa al pagamento annuale dell’Irap. Il 90% del gettito ottenuto da questa tassa è attribuito alle Regioni allo scopo di finanziare il Fondo sanitario nazionale.

Marco Grimaldi

Grimaldi, cosa significa che Fca verso zero euro di Irap?
Vuol dire semplicemente che da dieci anni la più grande azienda del nostro Paese si conferma un grande colosso nei profitti. Invece, se si guarda la voce Irap, somiglia a un indigente. Non l’ha versata né in Piemonte né in altre regioni. L’Irap è un’imposta, nata negli anni Novanta, per sostenere la sanità pubblica. Come gruppo monitoriamo da tempo il contributo delle grandi imprese a una tassa passata da due miliardi e mezzo di entrate, a inizio 2010, a circa due miliardi negli ultimi anni. Questa perdita di 500 milioni di euro non può essere legata solo al calo complessivo della produzione, la Fca, nel caso specifico, è passata a produrre da 200 mila vetture in Piemonte a meno di ventimila. Sottolineo che non stiamo parlando di evasione, ma di ipocrisia.

In che senso?
Non si può affermare che la sanità pubblica vada difesa per poi fare di tutto per non sostenerla. Versare 10 milioni di euro durante la crisi Covid, come ha fatto la famiglia Agnelli, e non versare le tasse dovute al proprio Paese, che servono a difendere il sistema sanitario nazionale, è la classica ipocrisia del mondo «made in Italy» che difende questo marchio solo per la propria immagine e i propri dividendi.

Pensa ancora che il ritorno di sede fiscale e legale del gruppo in Italia sia la condizione principale perché lo Stato faccia da garante del prestito? E cosa dovrebbe fare il governo ?
Non era una provocazione ma una constatazione. Con le poche risorse che ha questo Paese, dovrebbe concedere la garanzia per prestiti a imprese che hanno sede fiscale e legale in Italia. All’obiezione di chi dice che Fca è una multinazionale e che, dunque, può avere varie sedi in tutto il mondo, ribadisco un dato che vale per questa vicenda dell’Irap ma anche per il Decreto liquidità promosso dal governo: l’azienda deve depositare il suo bilancio consolidato nel Paese europeo in cui ha concordato il cosiddetto tax ruling e renderlo pubblico e consultabile. Come altrimenti un Paese può sapere se la casa madre sta scaricando o meno il costo dei servizi, delle merci o dei lavoratori? È paradossale non sapere quanta liquidità e dividendi agli azionisti e non avere la trasparenza necessaria.

Qual è ancora il peso di Fca a Torino e in Piemonte?
È quello che si può valutare dagli effetti devastanti della crisi avuti dall’indotto attorno al mondo Fiat, composto ancora da trecento aziende e 40 mila dipendenti, che hanno patito tantissime ore di cassa integrazione. E sullo stato del mondo della ricerca e dell’innovazione rimasto fermo per l’incapacità della precedente gestione Marchionne di disegnare per questo territorio una vocazione che andasse oltre i pochi modelli di lusso. Anche l’elettrico non porterà piena occupazione, se non si facilita l’arrivo di un grande produttore di batterie elettriche.

E quali aziende stanno patendo l’emergenza Coronavirus?
Molte delle crisi del territorio, dicevo, sono legate alla filiera Fca, dalla Martor di Brandizzo alla Mahle di Saluzzo e La Loggia, alla Lear di Grugliasco. Aziende finite in cassa integrazione nel periodo natalizio e che, qualche mese fa, a inizio lockdown non si volevano chiudere perché ritenute essenziali. Molte di queste crisi sono collegate ai mancati impegni della casa madre, che aveva parlato di 27 modelli per poi farne una decina. Tutto ciò ha portato un’incertezza nel territorio sia dal punto di vista produttivo che fiscale.