Una celebre poesia di Paul Muldoon, Our Lady of Ardboe, si conclude così: «Madre del nostro Creatore, Madre del nostro Salvatore, / Madre amorevolissima, Madre mirabilissima. / Vergine prudentissima, Vergine venerabilissima, / Madre inviolata, Madre casta. // E cammino affondando la vita tra il porpora e l’oro / con un braccio lungo quanto l’altro» (traduzione di Luca Guerneri). Il poeta ricorda il tempo in cui vide una giovane foresetta in un campo di ginestre e cardi – in particolare di cardi mariani, le cui corolle sono appunto purpuree – inginocchiarsi sull’uscio di una stalla. Perché lei non potrebbe «dipanare la via tortuosa verso l’ombelico di Cristo»? Non c’è forse anche nei fulgidi lineamenti della foresetta un’impronta più antica? Non si è forse trasformata lei stessa in una Lippina dal volto chinato? Allora i gesti consueti e lo stesso quotidiano paiono trasfigurarsi e intridere di un senso differente «il nostro semplice desiderio che nella vita ci sia di più».
È il senso decisivo di un passaggio, di un guardare con occhi nuovi e non meno sinceri lo splendore – la donna splendore, la «veduta forma» – che si manifesta nell’hic et nunc e che non tornerà, o meglio tornerà in un tempo più equanime, appena sfumato ora dall’istinto lirico. Ciò significa che il poeta vede l’immagine capace di dar sfondo a una logica da Bigongiari definita «tragica» e «abrupta»: logica che in Cavalcanti, pur non conoscendone la ragione illuminata dalla grazia, supera la soglia del normale dicibile ma si scontra nell’inferno perpetuamente potenziale della «virtualità».

Pena accolta a favore della vita

Un’immagine tematica davvero esemplare nel nostro patrimonio artistico-letterario è senza dubbio lo stabat mater, la donna d’amore sofferente dinanzi all’agonia del figlio. Il concetto stesso di madre è congiunto all’idea di una pena accolta a favore della vita, tanto nella circostanza del parto quanto in quella di una morte atroce. Si è madre: l’essere genitrice – condizione più che ontologica, scaturigine di un’esistenza altra da sé – va ben oltre la dicotomia faisandé di gioia/tormento, copre lo spazio, e lo strappo, della totalità. Ecco perché il passo evangelico di Giovanni riadattato in senari e ottonari sdruccioli da Jacopone («Stabat mater dolorosa / iuxta crucem lacrimosa, / dum pendebat Filius»), sembra avvicinare la madre di Dio e Dio stesso al fatto più umanamente esperibile. Passo evangelico che, nel successivo versetto, estende la maternità dolorosa di Maria a tutti i popoli, consegnando la sua figura al di sopra di ogni antecedente, di ogni possibile prospetto antropologico lévi-straussiano: mai era accaduto nei repertori mitologici, nei culti religiosi di società trasversali che una donna – un’umile fanciulla nazarena – accogliesse nel suo grembo il martirio di tutto il cosmo. Mai era accaduto che fosse questo l’envers du décor di una missione di associamento alla Redenzione (detto in altri termini, di «corredenzione», da cum Redemptore). Lo stabat giovanneo-jacoponiano afferma la singolarità di tale destino, il quale sfugge a ogni classificazione e sovrapposizione culturale, e suggerisce la fermezza e la persistenza esemplare con cui è portato innanzi da Maria: l’imperfetto continuativo «stava» indica il permanere fissi – con il dinamico giustapporsi del proprio soffrire («la fissità dell’acqua che scorre», dice Muldoon) – nella contemplazione del Figlio morente. L’assoluta fedeltà a questa sorte.
Il volume miscellaneo Stabat mater Immagini e sequenze nel moderno (a cura di Anna Dolfi, Firenze University Press, pp. 472, € 18,90) è un importante passo verso la ricognizione tematica di tale soggetto. E lo fa allargando intelligentemente il bersaglio. D’Annunzio, Pasolini, Gadda, Vittorini, Calvino, Jaccottet, Bichet, Stevens e ancora Giotto, Pergolesi, Puccini fino a Tarkovskij, Kurosawa (si potrebbe aggiungere il De André di Tre madri): l’imago mariana, l’experientia crucis della maternità non è descritta soltanto direttamente, ma anche indirettamente – o addirittura oppositivamente –, passando al setaccio tutti quegli autori che in qualche modo si sono scontrati con tale ineludibile argomento nel senso più ampio del termine. «Certo è che lo stabat mater», commenta Anna Dolfi nella Premessa, «come pochi altri oggetti della tematologia, vede una stessa postura dolente rimbalzare e tradursi in linguaggi diversi, registra il modificarsi e allo stesso tempo il persistere di una gestualità che dà voce, pur variata nel tempo – prevalentemente in silenzio – all’inaccettabilità della perdita, al picco e alla durata immobile del dolore». Ai modelli e alle tipologie della materia con uno sguardo particolare per il Novecento seguono riflessioni musicali, iconografiche, su proiezioni visive fino al rovesciamento del mito con l’arcigno begriffo di Medea e il giardino del dolore leopardiano delle «donne senza uomini» e delle «maternità disfatte».
La mère en deuil è resa presente, variata, alterata, ricreata: non importa. Resta, ineffabile, la traccia michelangiolesca della pietas, il contrassegno paradigmatico di un Ereignis cruciale per la riflessione letteraria d’Occidente. E non solo: per gli accadimenti luttuosi della storia recente. Nel saggio di Giulio Bogani è citata Felicia Bartolotta Impastato, madre di Peppino Impastato, «punto di riferimento per chi lottava contro la mafia», ritratta «accanto alla foto del figlio di cui non ha potuto riavere il corpo dilaniato dall’esplosivo, esprime fermezza e dignità, rammentando l’impegno delle madri argentine di Plaza de Mayo che reclamano giustizia per i figli desaparecidos». Il coraggio e il decoro della mater dolorosa sono descritti con toni struggenti anche da Eugenio De Signoribus, in una prosa d’arte donata al volume: «Non mi ero ripreso da quella prostrazione, quando sentii un’improvvisa animazione che dall’interno brulicava verso il fuori, sempre più concitata e sgomenta. Non riuscivo a muovermi: così, tra le voci sovrapposte, raccapezzai che la donna era ancora lì, in quella postura, inamovibile. E, più che morta, sembrava diventata di pietra». Un trittico inedito di Antonio Prete rammenta, invece, le Pietà caliginose di Tiziano, Caravaggio e Van Gogh. In particolare, riferendosi a quest’ultimo, è detto: «L’artista porta il dolore nell’intimità della sua propria poetica, partecipa alla rappresentazione con la preghiera più profonda che un artista conosca, quella che trasforma in colore la parola della finitudine, in luce materica e in pulsazione di forma l’esperienza del dolore».

Una tensione lirico-narrativa
Da simili testi si comprende come l’approccio tematico al problema abbia un fondo non espresso, sia giocato su uno stato anteriore della coscienza che supera di fatto, nelle allusività e nei sottintesi, il grado citazionale esplicito (il pattern) per entrare nel dominio di una «mariologia della letteratura», ossia di una tensione lirico-narrativa che volge alla perfetta integrità del soggetto, alla completezza dell’essente formulata in termini di scrittura e di muldooniana trasfigurazione. L’amor de lonh rivolto all’amata è così sterzato e mutato di direzione dall’amore, molto più tenace, di una madre che attende il figlio tra gli alberi – così nota Marina Paino per Il barone rampante – nel lungo lampeggiare di foglie e di giorni. Il paradigma della «mirabile visione», figura Christi come sottolineò Singleton per Dante, cela in sé l’attesa di essere madre nell’effusione/profusione pergolesiana del sentimento, presuppone cioè la «stagione che stagioni non sente» (De André), di pertinenza mariologica. Una linfa che nutre la letteratura europea dalle origini: non bisogna dimenticarlo. È il caso di Montale e della lirica Nel Parco di Caserta, nella cui chiusa – «Le nòcche delle Madri s’inaspriscono, / cercano il vuoto» – Fabio Pusterla scorge, sulla scia di Contini, un riferimento classicheggiante (le Parche?) alla metamorfosi della sofferenza. Ed è anche il caso di Dessì che, nel Disertore, come sottolinea Martina Romanelli, costruisce la figura di Mariangela non semplicemente sulla «radice biblico-jacoponica», bensì sull’«insieme delle donne sarde fin lì coperte dall’anonimato collettivo». La stessa Beatrice sarebbe impensabile senza quel virgulto viscerale, rimarcato per altro da Dante nella Vita nova al momento dell’addio della gentilissima in attributo di gratia plena. Nel viso di ogni donna, fosse anche di una foresetta, in quella giovane «Madre mirabilissima» – nell’Ewig-Weibliche goethiano, in sostanza – è possibile ravvisare la linea mariana del dolore per la vita, e non è una coincidenza che la rima, per metà veritiera direbbe Séamus Heaney, sia amore.