Storie di colletti bianchi, azioni, speculazioni, milioni di dollari, prigione. Storie di autografi firmati sul retro di scontrini lasciati nella stanza delle visite. Affari di famiglia, per il lato più autobiografico dell’ultimo album di St. Vincent, Daddy’s Home, la cui genesi coincide col ritorno a casa di suo padre nel 2019, dopo un decennio di detenzione.

DOPPIA TRAMA, altre vicende nell’intreccio. Gocce di whiskey su fotografie ingiallite, vecchie riviste, glam di seconda mano. Storie di una Grande Mela sudicia e funky, «i tacchi della notte scorsa sul treno del mattino. Il trucco di tre giorni ancora sul viso». Una città immaginata a partire dai vinili «post flower power» (ma pre-discomusic) che proprio suo padre le faceva ascoltare da piccola e che adesso rievocano un’epoca di recessione e post-idealismo non dissimile da quella in cui viviamo: «Si canta da un palazzo in fiamme, oggi come allora».
Daddy’s Home, come il precedente Masseduction (2017), è prodotto assieme a Jack Antonoff, ma con tutt’altro piglio, senza quella caccia alla perfezione «che spesso può causare dolore fisico», dice l’autrice. Buona la prima, in generale, per canzoni che «hanno la logica dell’acqua anziché dei grattacieli». Dolcezza e ironia ritrovate, dopo l’eccesso di adrenalina dello scorso decennio: «L’ultimo album e il tour erano incredibilmente rigidi. Ora voglio solo cose fluide e sinuose, voglio che la mia nuova musica sembri un film di Cassavetes. Desideravo toni caldi e non distorti per raccontare storie di gente imperfetta che fa del suo meglio. Che è un po’ la mia vita».

UN CAST IMMAGINARIO che Annie Clark alias St. Vincent inquadra con carrellate di versi. Jane Mansfield, Joni Mitchell, Marilyn Monroe: è un Blond Album, il sesto della cantante-chitarrista di Tulsa. Il video di Pay Your Way In Pain, come la copertina, ci propone un’icona a metà tra Mia Wallace e David Bowie. E sono citazioni degne di nota a piè di pagina, quelle tratte dal Duca Bianco (si veda Fame), da cui Annie riprende anche il trasformismo estetico che ne scandisce le tappe: «Voglio che guardando una foto si possa dire: «È di quel periodo lì». Mi eccita l’idea di diventare una persona diversa ogni due o tre anni». Tra i brani in prima persona singolare, Somebody Like Me offre la soggettiva visione dell’amore come «delusione reciprocamente concordata», mentre in My Baby Wants A Baby il personaggio della rockstar abbandonata non può nascondere il sincero timore di ereditare i cromosomi del fallimento genitoriale.
Live Your Dreams è un interludio pinkfloydiano, prima della chiusura del sipario affidata al ricordo di Candy Darling, musa transgender di Andy Warhol che ci saluta dall’ultimo treno diretto ai quartieri alti. Non anacronismo ma atemporalità, per un lavoro che esorta a uscire dal fango della schadenfreude e «gettare la maschera di pietà mentre ci dilettiamo nel sadismo», conclude la Clark. «Dobbiamo avere spazio per la compassione, l’empatia, il cambiamento e la redenzione».