Il 2 luglio 1916, Uruguay e Cile disputarono a Buenos Aires la partita d’apertura della prima Coppa America. Finì 4 a 0. Il giorno successivo, i dirigenti cileni pretesero l’annullamento dell’incontro. «L’Uruguay ha schierato due africani», dissero. Isabelino Gradín e Juan Delgado, pronipoti di uomini e donne trasportati oltreoceano in catene, erano i primi calciatori neri a partecipare a un torneo internazionale. Alla fine, il risultato venne confermato, Gradín diventò capocannoniere della coppa e fu più chiaro a tutti che il calcio non era solo un gioco.

KALILOU KOTEH è nato in Gambia nel 1994. Ha vissuto in Libia, dove costruiva case in legno, ed è arrivato in Italia quattro anni fa. A Milano ha fatto un corso da falegname, ma lavora come lavapiatti. Kalilou è il primo presidente africano della storia della Federazione Italiana Giuoco Calcio. «Così dicono tutti», commenta lui ridacchiando. La sua squadra si chiama St Ambroeus Fc e ha la faccia di un piccione sullo stemma. Una doppia provocazione. Il richiamo dialettale al patrono della città meneghina è una sfida all’identitarismo tanto in voga di questi tempi: dietro quel nome così tradizionale scendono in campo ragazzi nati in Senegal, Gambia, Mali, Costa d’Avorio, Guinea, Ghana, Camerun, Egitto, Italia e Romania. Sono i nuovi milanesi. Il piccione è stato scelto come simbolo di viaggi e migrazioni. «E poi a Milano è ovunque. Nonostante piaccia a pochi, è il vero simbolo della città», dice ridendo un tifoso.

La squadra è uno dei tanti esperimenti che ruotano intorno alla galassia del “calcio popolare”. Un fenomeno che in Italia ha una storia ormai decennale e coinvolge un numero crescente di club ispirati a valori alternativi a quelli delle grandi società e dei campionati maggiori: orizzontalità organizzativa tra dirigenti, tifosi e giocatori; aggregazione giovanile e antirazzismo; difesa dei beni comuni urbani e uso inclusivo dei territori. Palermo Calcio Popolare, Spartak Lecce, Quartograd (Napoli), Atletico San Lorenzo (Roma), Centro Storico Lebowski (Firenze), San Precario (Padova) sono alcuni tra i tanti esempi possibili.

A QUESTO MONDO SI INTRECCIA, e spesso si sovrappone, quello delle squadre sorte dall’incontro tra migranti e attivisti. Come la Liberi Nantes, creata nella capitale nel 2007, riconosciuta dall’Unhcr e iscritta in terza categoria. Stesso torneo dell’Atletico Diritti, selezione romana che dal 2014 unisce sotto la stessa maglia migranti, persone in esecuzione della pena e studenti universitari. L’Afro-Napoli United, invece, è stata fondata nel 2009 e al momento milita in Eccellenza. A queste realtà più strutturate e conosciute, si aggiungono altre decine di squadre, spesso organizzate negli Sprar, che si affrontano a livello amatoriale e nei tanti tornei antirazzisti.

A MILANO, L’IDEA DI LANCIARE un club di rifugiati in un campionato Figc viene alle Black Panthers Fc e ai Corelli Boys. Racconta Davide Salvadori, 26 anni, attivista dei centri sociali milanesi e responsabile comunicazione del St Ambroeus: «Le due squadre amatoriali erano state create per rompere la segregazione prodotta dal sistema d’accoglienza italiano. I centri sono spesso luoghi chiusi, che isolano le persone invece di costruire comunità. Il calcio, al contrario, è un linguaggio universale, capace di generare legami e un forte sentimento collettivo. Con l’iscrizione a un torneo della Federazione abbiamo deciso di fare un passo in più: diventare un riferimento sociale e sportivo del mondo antirazzista milanese e gettare le basi di un progetto più solido, che provi a durare e crescere».

Aggiunge Kalilou: «Organizzare una squadra come la nostra non è semplice. Il problema principale è legato al tesseramento. Il campionato è iniziato da due partite, ma la metà dei calciatori non possono ancora scendere in campo. Ci sono ritardi della Figc e problemi legati al fatto che molti ragazzi non riescono a prendere la residenza o sono in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno. A Milano si può aspettare anche un anno».

ABOUDALYE DIABY ha 22 anni ed è nato in Senegal. Lavora come vigilante e spesso arriva al campo indossando ancora la divisa. «Sono orgoglioso di far parte di una squadra di rifugiati e richiedenti asilo – racconta il ragazzo – . Giocare a calcio aiuta a staccare dai problemi e a sentirsi parte di una famiglia. La cosa più bella è quella sensazione che si prova in campo, il divertimento con il pallone, il rapporto con i compagni di squadra, i tifosi che ti sostengono.

Voglio fare un gol come quello di Koulibaly contro la Juventus. Quando ero in Senegal mi piaceva Cannavaro, lo vedevo giocare con la maglia della nazionale italiana e sognavo di diventare come lui, ma adesso il mio mito è il difensore del Napoli». Sugli spalti del St Ambroeus gli studenti delle scuole medie si mischiano ai richiedenti asilo dei centri d’accoglienza. Hanno la stessa età, o quasi. Insieme, alzano cori e accendono fumogeni. Nella prima di campionato hanno aperto uno striscione che diceva: «L’incubo di Salvini». Difficile dargli torto.

LE AZIONI DELLA SQUADRA milanese, intanto, non si limitano al terreno di gioco. Mentre il Ministro dell’Interno italiano incontrava il premier ungherese Orbán, davanti alla Prefettura di Milano, insieme a migliaia di persone, c’erano anche i calciatori del St Ambroeus. Scarpini ai piedi, pallone e sorrisi. Promettono di esserci, tutti insieme, anche nella battaglia contro la trasformazione della struttura di accoglienza di via Corelli in un Centro di Permanenza per i Rimpatri. Una partita appena cominciata. Spiega Davide: «I nostri giocatori vivono ogni giorno, sulla propria pelle, gli effetti delle politiche razziste del governo. L’ultima misura di questo tipo è il decreto legge Sicurezza voluto da Salvini che, cancellando la protezione umanitaria, creerà tanti nuovi clandestini. Anche per i nostri atleti sarà tutto più difficile. Un motivo in più per non restare fermi davanti alla barbarie che avanza».