Lampedusa è puntino rosso perso in un mare di pixel blu di fronte alle coste africane. «Quanto è distante dalla Libia?». All’operatore basta una manciata di secondi per soddisfare la curiosità del cronista. Pochi colpi sulla tastiera del computer e su uno dei 5 enormi schermi che riempiono un’intera parete della sala appare una sottile linea bianca che si arrampica veloce dal paese nordafricano fino alla piccola isola siciliana. «160 miglia», è la risposta.
E’ lungo quella linea bianca che ogni giorno centinaia di disperati combattono tra la vita e la morte. Come i 18 migranti trovati ieri senza vita nella stiva di un barcone soccorso mentre stava affondando 62 miglia a Sud proprio di Lampedusa. Si combatte in mare, dove uomini, donne e bambini dopo essere salpati dalla Libia proprio seguendo la rotta tracciata dalla retta lampeggiante tentano in ogni modo di entrare in Europa.

Ma si combatte anche nella sala di controllo situata alla periferia nord di Roma dove ha sede il comando in capo della squadra navale. E’ qui che la Marina militare coordina le navi impegnate nel Canale di Sicilia con l’operazione Mare nostrum, intercettando le carrette del mare cariche fino all’inverosimile e intervenendo in loro soccorso in una lotta disperata contro il tempo. Ma anche indirizzando verso i barconi le navi civili più vicine. Da quando Mare nostrum è cominciata, il 18 ottobre dell’anno scorso, fino a oggi sono stati salvati 87.242 migranti, molti dei quali sarebbero probabilmente morti senza l’intervento della navi della Marina e il lavoro di cordinamento che si svolge nella sala di controllo. In condizioni normali, se di normalità di può parlare quando ad arrivare sono migliaia di disperati ogni giorno, nella sala operativa lavorano dieci operatori a turno in servizio 24 ore su 24, che si moltiplicano quando scattano le emergenze più gravi. «Siamo l’unico Paese che ha un piano di sicurezza per chi va per mare, salviamo i migranti e fermiamo i trafficanti di uomini ma è chiaro che non possiamo farcela da soli», spiega l’ammiraglio Filippo Maria Foffi, comandante in capo della Squadra navale. «Mare nostrum è una risposta a una situazione di emergenza, ma non risolve il problema e serve una partecipazione più concreta dell’Europa», prosegue l’ufficiale dal quale dipende tutta la flotta militare del nostro paese.

Visto da uno degli schermi della sala operativa, in quanto a traffico il Canale di Sicilia sembra un’autostrada durante un week end di luglio. Centinaia e centinaia di puntini affollano il tratto d’acqua che separa l’Africa dall’Europa, e ogni puntino corrisponde a un’imbarcazione: nella maggior parte dei casi sono mercantili, pescherecci o navi militari, ma spesso si tratta anche delle imbarcazioni con a bordo i migranti. All’operatore basta spostarsi con il mouse sopra uno di quei puntini per sapere chi sta navigando. Un click e sullo schermo si apre una finestra con il nome dell’imbarcazione, stazza, paese di appartenenza, porto di imbarco e destinazione finale. Informazioni che è possibile conoscere grazie al Virtual regional maritime traffic centre (V-RMTC), un data base alimentato sia dagli strumenti di identificazione che si trovano sulle navi che dalle informazioni sul traffico mercantile trasmesse ogni giorno dai 28 paesi – tra i quali anche Libia, Usa e Giordania – aderenti all’iniziativa e che consentono di coprire oltre al Mediterraneo anche Mar Nero, Mar Rosso e Oceano Indiano. Dati che si aggiungono a quelli di carattere più riservato che affluiscono nella sala operativa. Se il puntino non fornisce nessuna informazione, allora molto probabilmente si tratta di un gommone o di una barca carica di profughi in fuga. Alle quattro del pomeriggio, sono ben 17 mila le navi in movimento nelle aree coperte dal sistema.

Da più di nove mesi, però, gli sforzi maggiori sono concentrati su Mare nostrum, operazione che vede impegnati due pattugliatori, due fregate, una nave addetta ai rifornimento e salvataggio e un’unità anfibia, la San Giorgio. A queste si aggiunge spesso anche un sommergibile impiegato per seguire e filmare senza essere visti l’attività degli scafisti. Si ottengono così immagini importanti, che spesso hanno permesso alla magistratura di avviare le inchieste contro i trafficanti di uomini. Dare la caccia ai trafficanti al di fuori delle nostre acque territoriali è infatti uno dei problemi a cui Mare nostrum deve far fronte. Montego Bay, la convenzione Onu sul diritto del mare, permette infatti alle navi militari di intervenire in acqua internazionali solo per contrastare episodi di pirateria o di traffico di schiavi. Visto però che per attraversare il Mediterraneo pagano un prezzo agli scafisti, i migranti non rientrano nella seconda categoria. «Lo so è assurdo, ma paradossalmente gli schiavi sono più fortunati dei migranti», dice con amarezza l’ammiraglio Fossi. «Per un trafficante uno schiavo ha più valore se le sue condizioni di salute sono buone, mentre un migrante cessa di avere valore nel momento in cui finisce di pagare il prezzo della traversata». Per questo si sta lavorando perché il traffico di migranti diventi una fattispecie di reato legata alla tratta degli schiavi. Nonostante le difficoltà, finora sono stati comunque 300 gli scafisti fermati e consegnati alla magistratura.

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Ma prima di tutto viene la salvezza delle vite umane. Quando viene individuato un barcone in difficoltà scatta l’opera di coordinamento. Dalla sala di controllo entra in contatto con i comandi della Capitaneria di porto e della Guardia di Finanza, si individua l’unità più vicina ai migranti e se nessuna può intervenire rapidamente, perché troppo distante o impegnata in altri soccorsi, si allerta la nave mercantile più vicina. Nei casi più gravi nella sala prendono posto anche esperti tecnici, sanitari, legali e di comunicazione che forniscono un supporto di conoscenze ulteriori. Un’attività che mette in secondo piano tutte le polemiche sui costi di Mare nostrum, che ammontano a 9 milioni di euro al mese. «Soldi che la Marina prende dal suo bilancio, e che quindi no ricadono direttamente sul contribuenti», ci tiene a precisare l’ammiraglio Foffi. «Per questa operazione abbiamo messo da parte altre attività , come per esempio l’addestramento, ma per chi va in mare il salvataggio di chi si trova in difficoltà è un dovere».

Da mesi il governo chiede all’Europa di non lasciare l’Italia da sola nell’affrontare l’emergenza rafforzando per questo il sistema Frontex. Richiesta che per ora, nonostante le tante promesse, Bruxelles non ha ancora accolto., Così come, per il momento non si vede alcuna disponibilità a modificare il regolamento di Dublino consentendo così di smistare i profughi che sbarcano in Italia tra tutti i paesi dell’Unione. Richieste la cui importanza è stata sottolineata di recente anche dal prefetto Mario Morcone, capo del dipartimento immigrazione del Viminale, che ha chiesto interventi nei Paesi di origine dei migranti. «Con tutto il rispetto l’Ue, l’Onu e le grandi orghanizzazioni internazionali devono impegnarsi di più per favorire condizioni di stabilità e di pace in quelle martoriate regioni», ha detto Morcone. Nel frattempo non manca chi chiede di mettere fine a Mare nostrum. «Dirlo è facile – commenta l’ammiraglio Foffi – ma un militare non può lavorare sul consenso, deve fare il su dovere. E oggi troppa gente ancora ignora cosa accade al largo delle nostre coste».