Incombe su 16 milioni di elettori e su 35 candidati alla presidenza il ricordo ancora vivo delle bombe di Pasqua nello Sri Lanka che colpirono chiese e alberghi di lusso uccidendo più di 250 persone e ferendone diverse centinaia. Per forza di cosa, l’eredità di quella vicenda oscura – col suo corollario di scontri tra comunità in un Paese dominato dai singalesi buddisti ma con importanti minoranze musulmane e indù (tamil) – ha guidato la campagna elettorale all’insegna della sicurezza, un mantra diffuso e facile da sventolare nelle strategie della propaganda.

L’altro tema è la povertà, malattia atavica, e lo sviluppo in un Paese che non cresce e il cui debito estero – oltre 34 miliardi di dollari – vale quasi il 40% del Pil. Sono debiti soprattutto con la Cina contratti dal presidente Mahinda Rajapaksa che nel 2015 fu defenestrato – al netto di un tentato golpe per rimanere in sella – da Maithripala Sirisena, l’uomo che ha dovuto affrontare le bombe rivendicate dallo Stato islamico e su cui una scia di polemiche e controversie si sono accompagnate a una campagna securitaria sottolineata da scontri tra comunità soprattutto a danno dei musulmani.

Sirisena e Rajapaksa non si presentano alle elezioni ma uno dei due candidati favoriti è un «loro» uomo: Gotabaya Rajapaksa, fratello di Mahinda e controverso ministro della Difesa durante la sconfitta della guerriglia del partito armato delle «Tigri Tamil» nel maggio del 2009 . Il paradosso è che Sirisena, acerrimo nemico dei Rajapaksa e uomo dello Sri Lanka Freedom Party (Slfp) – un partito fondato dal socialista Solomon Bandaranaike – ha poi cambiato bandiera durante il suo quinquennato: scegliendo proprio il vecchio Mahinda come premier con cui sostituire l’attuale – Ranil Wickremesinghe – che poi l’ebbe vinta per decisione della Corte suprema. Sirisena si dice neutrale ma il suo partito appoggia di fatto Gotayaba del quale già si sa che come premier vorrebbe suo fratello Mahinda. I due, che pure vengono in origine dallo Slfp, sono ora nello Sri Lanka Podujana Peramunama (o Sri Lanka People’s Front): rappresentano l’ala più nazionalista e identitaria singalese-buddista dello schieramento.

In questo quadro confuso di amici-nemici, con sullo sfondo il rapporto complesso con la Cina (di cui i fratelli Rajapaksa sono gran fautori) e con l’India e gli Usa (che videro con favore la vittoria di Sirirsena nel 2015 proprio sperando di scalzare l’influenza di Pechino), anche l’altro candidato che potrebbe essere letto superando il 50% dei voti è una vecchia conoscenza dell’establishment srilankese.

Si chiama Sajith Premadasa, classe 1967, del United National party (Unp), partito liberal conservatore che ha avuto, col fratello di Sajiit – Ranasinghe Premadasa – un premier e un presidente fino al 1993 quando Ranasinghe fu ucciso dalle Tigri. Adesso l’Unp ha il premier Ranil Wickremesinghe che già abbiamo ricordato essere detestato sia da Sirisena sia dai Rajapaksa. Ma anche Sanjit, se eletto, potrebbe cambiare cavallo. Anche se comunque il presidente, cui spetta la nomina del premier, dovrà pur sempre aspettare le parlamentari del prossimo febbraio.

Intanto, in un Paese semi presidenzialista, vincere lo scranno più alto è importante. Se lo vince Gotayaba, col beneplacito di Sirisena e l’ombra del fratello alle spalle, cambierà completamente il quadro politico e la famiglia Rajapaksa tornerà a regnare, al netto delle accuse di nepotismo, corruzione e violazione dei diritti umani di cui han fatto scorta in questi anni. Se invece la vittoria andrà a Sanjit, che sembra meno propenso di loro a cavalcare la bandiera identitaria, rafforzerà l’Unp aiutandolo a vincere anche le elezioni politiche.

Sullo sfondo resta la tensione nei rapporti internazionali: con un vicino potente come l’India che ha sempre considerato Colombo una sorta di provincia d’oltremare e un lontano competitor – la Cina – che ha nella «lacrima dell’Oceano indiano» una delle gemme della sua «collana di perle», la Via della seta per via marittima che passa proprio da Sri Lanka.