L’esito era prevedibile. Aspettando ieri mattina l’inizio delle commemorazioni ufficiali tra le tombe del Memoriale di Potocari, chiedevo ai bosniaci che continuavano ad affluire cosa ne pensassero della presenza del Primo Ministro serbo, Aleksandar Vucic.

Nessuno dava risposte positive. Un signore di Tuzla era stato il più esplicito: «Non bisogna permetterlo». Eppure la visita era iniziata nel migliore dei modi. Vucic era stato accolto dalle Madri di Srebrenica, che gli avevano appuntato sul petto una margherita bianco-verde, simbolo del genocidio del ’95. Anche il sindaco di Srebrenica, Camil Durakovic, aveva mostrato disponibilità nei confronti del Primo Ministro.

Ma le polemiche della vigilia avevano lasciato il segno. Proprio Durakovic, nei giorni dell’arresto di Naser Oric in Svizzera su mandato interpol richiesto dalla Serbia, aveva detto di non poter garantire la sicurezza di Vucic a Potocari. Il rilascio del comandante della difesa di Srebrenica aveva placato la tensione, ma ormai le parole erano state pronunciate.

La vicenda del voto sulla Risoluzione per Srebrenica, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, aveva inquinato ancor più lo scenario. Il Primo Ministro serbo aveva legato la propria partecipazione al respingimento della Risoluzione, perché per la Serbia il termine «genocidio» è inaccettabile. Troppi distinguo.

Dopo i discorsi tenuti nell’ex base dei caschi blu olandesi, i rappresentanti internazionali si sono spostati nell’area del Memoriale. La folla – più di 50.000 persone – ha cominciato a sussultare.
Vucic ha deposto un fiore per le vittime, poi è cominciata l’aggressione. Un gruppo ha spiegato uno striscione con una frase attribuita a Vucic («Per ogni serbo morto uccideremo 100 musulmani»), e in un attimo sono tornati gli anni ’90, con l’aggiunta di qualche sporadico «Allahu Akbar».

Nonostante la difesa delle forze di sicurezza, e gli inviti alla calma immediatamente pronunciati dal reis ulema Kavazovic, il leader religioso dei musulmani bosniaci, la scena faceva paura. È diventato immediatamente chiaro che far entrare Vucic, in quell’arena, era stata una leggerezza, e la commemorazione delle vittime di Srebrenica è diventata subito qualcos’altro.

Nei Balcani vige la politica del «Da, ali», «Sì, però». È un leit motiv, sia tra la gente comune che nelle posizioni ufficiali.
«Anche noi abbiamo commesso crimini, però». Nella condanna dei crimini di guerra non servono i «però». Serve la posizione delle Donne in Nero di Belgrado.

Anche loro vengono dalla Serbia, e si presentano al Memoriale di Potocari ogni 11 luglio. Con un messaggio semplice: «Solidarietà» con le vittime, e «Responsabilità» per i crimini commessi dalla propria parte. Non si può aspettare che Vucic parli tutto a un tratto come le Donne in Nero, sue oppositrici da sempre.

Negli anni ’90, lui era parte integrante della politica nazionalista serba che tanti lutti ha provocato nella regione.

Proprio per questo, tuttavia, il cambiamento del suo discorso politico è un segnale importante. Non ha certo la limpidezza della posizione delle donne, ma oggi Vucic china il capo di fronte alle vittime di una strage che fino a qualche anno fa, per gran parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica serba, non era neppure esistita. Per questo quella di oggi è stata un’occasione sprecata.

L’11 luglio è una data sempre più carica di significati. Il ricordo della più grande strage avvenuta in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale meriterebbe più rispetto, e un profilo più basso da parte dei diversi rappresentanti delle istituzioni coinvolte.

Meno chiasso prima, durante, e dopo. Si tratta di seppellire le vittime faticosamente ritrovate e identificate dall’Istituto Internazionale per le Persone Scomparse e dall’apposita commissione bosniaca nel corso dell’anno trascorso, e di manifestare rispetto per le vittime e i loro familiari.

La politica stride. Ci sono famiglie che hanno atteso 20 anni questo momento. Altre continuano a vivere con l’angoscia di non sapere dove sono i resti dei propri cari.

Ci sono madri che, perdendo la ragione, vanno sui campi minati alla ricerca delle ossa dei figli, sulla base di semplici voci secondo cui «lì ci potrebbe essere una fossa». Vucic ha risposto all’aggressione subita oggi in Bosnia con parole di saggezza e moderazione, dichiarando di voler continuare con una politica di mano tesa verso il vicino e di riconciliazione tra Serbia e Bosnia Erzegovina.

Potrebbe fare di più. Intervenire presso le istituzioni serbo bosniache perché mettano a disposizione delle famiglie le informazioni sulla dislocazione delle fosse comuni.
Mancano ancora quasi 2.000 persone all’appello, e non è possibile aspettare altri 20 anni. La riconciliazione ha bisogno di gesti concreti. La sua presenza, l’anno prossimo, sarebbe accolta in maniera diversa.

*Osservatorio Balcani Caucaso